14 febbraio 2004 – L’ultimo Pantamura

DI ALIGI PONTANI

 

  Gianni amava Pantani, lo amava proprio. Quel tipo di amore pieno di gratitudine che si prova quando si incontra qualcuno capace di entrare dentro zone sconosciute o assopite del tuo universo emotivo, risvegliandole. Gianni si emozionava quando vedeva Pantani, e ne era felice, e dunque riconoscente, e sapeva ricambiare a modo suo: scrivendo dei pezzi meravigliosi, nei quali le parole giuste facevano strame della retorica e dell’epica che altri, quasi tutti, spandevamo a mani basse. Gianni non era proprio capace di esagerare, non l’hai mai fatto in vita sua. E non ha fatto eccezioni per Pantani, neppure nelle giornate più belle e memorabili, neppure quando quelle emozioni sopite dal tempo e risvegliate dal campione gli facevano davvero andare su di giri i battiti del cuore, ma mai quelli della scrittura.

Gianni amava Pantani, certo come tantissimi altri, a milioni lo amavano. Ma lui aveva il peso e il piacere e la responsabilità e la gioia di doverlo raccontare, ogni giorno e ogni anno, tenendo a bada quell’amore per non fargli corrompere la lucidità di quel racconto. Così è arrivato il Pantadattilo, così è arrivata l’immagine assoluta e definitiva del corridore di un’altra era, l’era dei ciclisti fragili, umani, con gli occhi tristi e le gambe d’acciaio. Gli ricordava l’altrettanto amato Ocaña, ma forse no, non gli ricordava nessuno, Pantani. Qualcuno estinto, che nessuno dunque aveva conosciuto, un dinosauro, l’ultimo di una specie. E soprattutto lo faceva soffrire, quando correva, per la paura che qualcosa andasse male. Gianni soffriva come forse soltanto mentre guardava l’altro suo grande amore sportivo, la pallavolo, dove ogni punto era un tormento. Anzi, per Pantani Gianni soffriva di più, perché la strada è piena di minacce, di curve storte, di fossi, di discese maledette, di tifosi deficienti che ti si mettono davanti vestiti da diavolo, di automobili che ti spuntano davanti all’improvviso, di gatti neri e cani randagi che attraversano e ti fanno cadere.

 

Gianni amava così tanto Pantani da soffrire anche prima che la corsa cominciasse, per il timore che la sua leggendaria sfortuna, da Paperino, coppiana, lo sbattesse giù dalle vette delle classifiche conquistate sulle vette delle montagne. Così in quel Tour incredibile e memorabile, il Tour del ‘98, aveva preso l’abitudine di chiamarmi prima che le tappe partissero. Lavoravamo insieme, a distanza, lui sulle strade della corsa, io nelle stanze della redazione sportiva di Repubblica a Piazza Indipendenza, dove avevo il compito benedetto di occuparmi delle sue corrispondenze dalla Francia: concordarne la lunghezza, ricevere le indicazioni sui contenuti, poi lavorare i testi che arrivavano, controllandoli (si fa per dire: i pezzi di Gianni erano perfetti) impaginandoli e titolandoli, corredandoli con foto, didascalie, tabelle, quello che nei giornali si chiama il lavoro di desk.

Dunque sentirci dopo le tappe era un piacevole dovere. Ma sentirci prima era diventato un rito. Scaramantico, di sicuro. Sentimentale, altrettanto. Gianni esorcizzava la paura che l’incantesimo di Pantani in maglia gialla si frantumasse su qualche sampietrino. Sentiva il pericolo, alzava il pelo come i gatti, mi chiamava e insieme, con la piantina altimetrica della tappa davanti agli occhi, invocavamo la protezione di divinità pagane inventate, da lui battezzate. Divinità antropomorfe, figure mitologiche che avevano talvolta nomi di amici veri e competenze specifiche sulle diverse categorie della sfiga: incidenti meccanici e stradali, foruncoli del soprassella, forature, cadute assortite, fulmini e saette dal cielo, diarree fulminanti, tremebonde crisi di fame, salti di catena. A tappa finita e pericoli scampati, arrivavano i pezzi di Gianni, quelli con attacchi diventati proverbiali come Pantastique, o M’illumino di Pantani, quelli che il deskista lavorava con la precisa sensazione di maneggiare un diamante e il lettore divorava il giorno dopo con la stessa gratitudine di chi lo aveva scritto. 

Andò avanti così, giorno dopo giorno, tappa dopo tappa, fino al primo giorno di agosto, il giorno di Parigi: Pantani finalmente felice con il suo mazzo di fiori sul podio, la maglia gialla, Gimondi al suo fianco, la vita bella dei lieti fini. Gianni, che mi aveva chiamato la mattina per parlare della quasi inevitabile caduta di Marco all’ultimo giro sugli Champs Élysées, doveva scrivere il suo pezzo conclusivo, che era anche un pezzo di liberazione, di risarcimento, di esausta gioia. Lo cominciò mettendo insieme tutte le divinità evocate durante la corsa, la Nostra Signora dei Disgraziati, il san Maurizio del Contromano, la Vergine delle Rocce e santa Maria dei Parapetti, san Quirino della Curva Strozzata, patrono degli acrobati, San Giuseppe dei Tomboloni, sant’Onofrio dei Gatti Erranti, san Lodovico del Pavé, san Caro degli Svincoli, san Brunone dei Fossi, san Matteo delle Chiaviche. C’ero anche io, gratificato come sant’Aligi del Ghiaietto, il che mi valse la telefonata di parecchia gente, tra cui il direttore. Ne abbiamo riso per mesi. Non tanti. La discesa di Pantani cominciò presto, la curva strozzata era dietro l’angolo, altro che ghiaietto. Quel 14 febbraio chiamai Gianni un secondo dopo il lampo sulla schermata del computer che annunciava la tragedia. Sentii moltissimo silenzio. Devo scrivere, immagino, disse soltanto, alla fine.

 

 

    MAI PAURA | LE PAROLE DI MURA

 

  Il pezzo su Pantani da Plateau de Beille

Pantastique, cari amici francesi e italiani vicini e lontani. Il bello di Pantani è che lo aspetti e lui arriva. Come un treno, come un vento, come una ruspa, come una musica. Rimette in discussione il Tour, rifilando 1’4″ a Ullrich.Pantani è l’esperanto del ciclismo. Lo capiscono i bambini e i vecchi allo stesso modo, lui è la biglia dei bambini, il loro cartone animato, lui è la consolazione dei vecchi, il ricordo che si salda alla realtà. Lui è terribile quando attacca, è l’ululato nel bosco e il soffio che fa tremare le candele, è selvaggio e solitario, ostinato e intrattabile, ma con una sua mistica precisa della corsa, della salita, della fatica. Ed è fatto come è fatto, una biglia d’uomo andata spesso fuori pista, fuori conoscenza, fuori strada. Può rasarsi e mettersi tutti gli orecchini e le bandane che vuole, per me non sarà mai il Pirata, troppo facile. È più complesso, Pantani.Capirete che l’uomo-biglia, il bonsai, ha radici profondissime nella terra del ciclismo, che è poi la terra degli uomini, dei contadini, dei nomadi e dei poeti, forse anche dei pirati. In certi bar di provincia c’è sempre una fisarmonica o una chitarra sull’ultimo tavolo in fondo. Arriva da fuori uno e si mette a suonare. Come fa Pantani con le salite vere. Spettacolo vero, ciclismo vero, e poi non dovremmo innamorarcene? In coda c’è posto, grazie.  | Gianni Mura, la Repubblica, 23 luglio 1998

 

Il pezzo su Pantani da Les Deux Alpes

M’illumino di Pantani, che arriva sotto l’acqua con dietro, come lucciole grasse, i fari ballonzolanti delle grosse moto. Ma sì, illuminiamoci un po’ tutti di Pantani, che scuote dalla fondamenta questo Tour torbido, che schianta Ullrich come fosse un gigante di cartapesta, che si veste di giallo, che ridà grandezza e dignità al ciclismo e dunque anche a questo Tour malato e mal disegnato, non certo per i suoi mezzi, enormi da una parte e limitati dall’altra.  Pantani viene da una terra che non è solo discoteche e piadine: ai vecchi, lì, si dà ancora retta. mi sono accorto di perdere lucidità quando vince Pantani. Non c’è il dovuto distacco, tanto vale ammetterlo: mi prende. Ancora non so da quali luciferine profondità cavi quella voglia di solitudine, di sofferenza, che molto raramente (non ieri, ad esempio) si sciolgono sul traguardo in un sorriso. Alza una mano, poi l’altra, le batte una volta, serio, e basta. Come l’illusionista dopo il numero riuscito. Questa, come tutte ma più di tutte, è una corsa di uomini ma anche di carburanti. Può essere, ma diciamolo sottovoce, come nei romanzoni di appendice, il Tour dei grandi peccatori e dei grandi innocenti. Fermo restando che Marco Pantani originario di Sarsina, il paese di Plauto, dove ancora nella chiesa di San Vicinio si curano gli indemoniati con un collare di ferro, non è un ciclista. È un cuore in bicicletta. Più si sale e ci si avvicina al cielo, più questo cuore batte, ribatte, combatte. E abbatte Ullrich, ma vedere in questo la storia di Davide e Golia sarebbe assai banale. Cercheremo di meglio, sperando di trovarlo, coi nostri violini di parole di carta. A volte, è anche bello dire semplicemente: grazie. | Gianni Mura, la Repubblica, 28 luglio 1998

 

  L’ultimo Panta-Mura

Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: «Perché vai così forte in salita?». E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: «Per abbreviare la mia agonia». Ecco, pensando a questa frase ho fatto i calcoli: la sua agonia è durata qualcosa meno di cinque anni. Però è stata un’agonia. Pantani è stato troppo grande in bicicletta per accettare di essere piccolo, peggio di essere rimpicciolito per legge, di essere uno come tanti. Non era questa la vocazione, non era questo il suo destino. La sua vocazione era quella di svegliare le montagne, di essere paragonato a un fossile, Pantadattilo l’ avevo battezzato un giorno, perché mi dava l’ impressione di un animale preistorico, una specie di Godzilla su due ruote, qualcosa che rompe l’asfalto delle strade nuove.

Pantani non aveva maschere. Aveva solo la sua faccia, normale, gli occhi profondi, un po’ liquidi, le orecchie larghe, a sventola. Da ragazzino, raccontava, andava sempre a scuola col coltello in tasca, «per difendere i più deboli». Non ho mai indagato oltre. 

Da anni si sapeva delle cosidette cattive compagnie, delle droghe non solo ciclistiche, dei privé delle discoteche, i carissimi amici che forse non erano tanto amici, ma chi si può assumere il diritto di andare a consigliare un disperato? Perché, sostanzialmente, questo era Pantani. In cima al mondo con la sua bici, e nessuno senza la sua bici. Adesso, in un paragone probabilmente esagerato, dovuto all’ ora tarda o al dolore, si può dire che Pantani senza bicicletta era come l’albatro di Baudelaire. Adesso, che non si sa di preciso come è morto, si può dire che raggiunge i ciclisti morti di malamorte, di morte strana.

Giravano leggende metropolitane, anzi romagnole: è sempre in palestra, sta pensando al body building. Io continuavo a darlo per disperso, sapevo che non sarebbe più tornato, e sapevo, anche se è facile dirlo adesso, che sarebbe finito male. Non così presto però, in questo modo no, non lo aspettavo. Resta emblematico il nome dell’ultima scena, che non era una salita: le Rose. Sono fiori romantici. Altri osserveranno che è triste morire da soli la notte di San Valentino. Morire da soli è triste, comunque, in qualunque notte. E Pantani, negli ultimi anni, era un uomo molto solo, anche se attorno poteva avere tanta gente. Era la solitudine di chi non riesce più ad accettarsi così com’è, e nemmeno la vita che questo comporta. Gli sia lieve la terra, al fondo di questa lunga discesa. Diventerà un mito, probabilmente. Come quelli che muoiono troppo presto, come quelli che non si sa perché muoiono. Avrei preferito vederlo invecchiare, e bere un bicchiere di Sangiovese con lui, da qualche parte sulle sue colline. | Gianni Mura, la Repubblica, 15 febbraio 2004

 

 

L’Équipe ricorda Pantani in questo modo, con un servizio di due pagine da Cesenatico e le parole di Alexandre Roos, la prima firma di ciclismo del giornale, attualmente forse il più grande raccontatore al mondo di questo sport. 

Marco Pantani – attacca così – sta ancora pedalando e il pellegrinaggio a Cesenatico convincerà il primo degli infedeli che il Pirata non è morto, e non lo sarà mai

Anche Roos dalla Francia ricorda il legame esistito tra Pantani e Gianni Mura [compianto giornalista], la frase sull’agonia. La storia di Marco Pantani – dice – è quella di una scatola di fiammiferi che si è accesa tutta insieme

Roos chiude ricordando che una terza indagine giudiziaria è ancora aperta alla Procura di Rimini, ma dovrebbe essere archiviata nei prossimi giorni, mentre i familiari e una parte degli osservatori restano convinti che Pantani sia stato assassinato.

Sotto la luce vaporosa dell’Adriatico – si chiude così il suo reportage – questo orizzonte costantemente velato, la mitologia annidata tra le nebbie della storia, si nutre della vaghezza del dramma. Con il passare del tempo la malinconia ha sostituito il dolore ma l’esercito dei fedeli non ha smobilitato mai. Prima di lasciare il cimitero, Paolo Pantani ha spazzato le lastre davanti alla tomba del figlio. Come una giornata qualunque. Lo stesso da vent’anni.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.