Un uomo chiamato Puliciclone

Introduzione
Paolo Pulici, milanese di Roncello, è l’ultimo dei “grandi” del Toro. Dopo Valentino Mazzola, Gigi Meroni, Giorgio Ferrini, l’ultimo vero emblema è stato lui, Pupi, idolo incontrastato della curva Maratona e di tutti i cuori granata dal momento in cui Giorgio Ferrini appese le scarpe al chiodo. Ragazzo buono come il pane, partito come Gigi Riva dal Legnano, Paolino approdò al Toro giovanissimo. Quasi trecentocinquanta partite, circa centotrenta gol solo in campionato dal 1967 al 1982. Sono solo dei numeri, certo significativi, ma che descrivono il goleador e non il simbolo che Pulici è stato.
Uomo d’area nato, Pupi era l’essenza del bomber. Non ho mai visto nessuno bravo come lui nel momento di fare gol. Ho visto giocatori più completi, ma nessuno come lui in quei sedici metri che delimitano l’area di rigore. Neanche Riva, neanche Paolo Rossi. A volte sembrava che non ne avesse voglia, che non fosse la sua giornata, ma bastava un attimo e… zac, lui ti infilava. Poteva succedere che trovasse un marcatore duro, un picchiatore, che magari lo limitava nella prestazione, ma all’appuntamento con il gol il suo istinto lo portava a rischiare anche la vita, mettendo la testa tra i tacchetti del terzino o cadendo con la schiena da più di due metri dopo una rovesciata. 
di eraldo pecci. Il Toro non può perdere (Rizzoli, 2013)

 

  Infanzia di Paolo
«Avevo cominciato con le sigarette a 14 anni, quando lavoravo in una trafileria di rame. Tutti bevevano latte, per togliersi dalla bocca i vapori del verderame, ma io ero quasi allergico al latte, tant’è che mia madre mi ha tirato su a patate, così ho cominciato a fumare. Poi sono passato in un mollificio di Roncello, Cima si chiamava. Ci tengo a citarlo perché il padrone, Gigi, era una brava persona. Quando il Torino mi ha preso dal Legnano, gli ho chiesto di tenermi il posto per un anno. Se andava male, tornavo in fabbrica. Allora Roncello faceva 800 abitanti, adesso è cinque volte tanto, un dormitorio di Milano come molti paesi qui intorno. Non c’era nemmeno l’oratorio, giocavo in piazza della chiesa. Una porta era quella dell’asilo, l’altra quella di una casa. Trovo ancora qualcuno che mi rinfaccia d’aver rotto un vetro a sua nonna o a sua zia. Tiravo solo di destro. Sono cresciuto in una famiglia milanista ma il mio idolo era Gigi Riva. A 15 anni correvo i 100 in 10″5 con le scarpe da calcio. E a 15 anni faccio i primi allenamenti veri. Ero cresciuto allo stato brado, senza che nessuno mi dicesse cosa fare o non fare. E arriva il giorno del provino con l’Inter, sul campo di Rogoredo, con altri ragazzi della regione. A guardare ci sono Helenio Herrera e Invernizzi. Li sento parlare a fine partita. “L’11 è troppo veloce per giocare a calcio, meglio che si dia all’atletica”. L’11 ero io, e ci rimasi male». 
di gianni mura, la Repubblica, 3 marzo 2014

 

  Paolo diventa Pulici. Quando lo prese il Torino
«Mia madre aveva dei dubbi: è troppo lontano da casa, farai la vita del barbone. Invece ci sono rimasto 17 anni, bellissimi e lunghissimi, finché non sono passato dal ruolo di insostituibile a quello di inutile. Il presidente Pianelli per noi era come un padre. Cedette il club ma mi lasciò il cartellino. Forse per questo Moggi mi fece fuori col pretesto che ero vecchio. Avevo 32 anni e al posto mio presero Selvaggi che ne aveva 30. Devo molto ad alcuni allenatori. Giagnoni e Radice, ma prima ancora Oberdan Ussello. Intanto, per la grande umanità. Ricordatevi che loro vi stanno guardando, diceva quando passavamo davanti allo spogliatoio dei grandi. E per loro intendeva Mazzola, Maroso, Castigliano, Gabetto. Poi c’erano i vecchi cuori granata. Guarda Pupi, questo è l’autografo di capitan Valentino. Sai, Pupi, che un gol come il tuo l’ho visto fare a Libonatti? Io sono destro naturale, molti pensano che sia mancino ma è stato Ussello il primo a farmi usare il sinistro. Le mamme ci hanno dato due piedi per usarli, Pupi. Tu credi che il più forte sia il destro, invece è il sinistro, il piede d’appoggio. Prova a tirare. Col destro, 140 all’ora, col sinistro 160. Col destro giocavo la palla ferma, col sinistro quella in movimento. I primi due anni, una frana. In allenamento uno sfracello, in partita una quantità di pali e traverse, ma solo 3 gol in 47 gare. Ero in prima squadra e Ussello ha detto a Giagnoni: Il ragazzo non è tranquillo quando tira, se me lo dai per un mese te lo rendo lucidato. Per me era un passo indietro ma non me la presi, capii che era per il mio bene. Giagnoni si fidava, dopo quel mese mi nominò rigorista ufficiale».
di gianni mura, la Repubblica, 3 marzo 2014

 

  Quando Pulici comincia a fare Pulici
Adesso dicono di Paolo Pulici che è il piccolo Riva del Torino. Ma l’anno scorso era conosciuto come uno specialista nello sbagliare i gol in serie, uno che non segnava mai, nemmeno a porta vuota. In tutto il campionato 69-70 Pulici ha giocato 24 partite: non è riuscito a far centro neanche una volta. In compenso falliva occasioni clamorose, arrivava solo davanti al portiere dopo gagliarde galoppate palla al piede e poi calciava fuori: oppure riusciva a dribblare anche il portiere ma subito spuntava un difensore (quando non era il palo) a respingere il pallone. Eppure doti ne aveva (e ne ha), questo Pulici. Un tiro secco, uno scatto rabbioso, soprattutto tanto coraggio: come un Riva in formato minore. Pulici ha cominciato l’anno nuovo a ritmo favoloso: 11 reti in 8 incontri. Se continua così, Pulici diventerà davvero un altro Riva.
di antonio tavarozzi, la Stampa, 22 settembre 1970

 

Come giocava Pulici
Pupi si avvaleva di un fisico perfetto, uno e ottanta per settantaquattro chili, un fascio di muscoli senza un filo di grasso. Fortissimo di testa, con uno stacco e un tempismo eccezionali. A differenza di altri goleador, possedeva un tiro che faceva male anche da fuori area. Preferiva colpire col piede destro, ma anche col sinistro sganciava delle gran sventole. Se partiva da lontano e prendeva velocità, diventava inarrestabile.
Ricordo  un sacco di partite finite col risultato di 1-0, con gol di Pulici. I bomber veri fanno così. Qualche tripletta, diverse doppiette, e più spesso gol pesanti, determinanti. Quell’anno Pupi segnò ventuno reti confermandosi principe dei marcatori. Era sposato con Claudia, aveva una figlia, Patrizia, ed era molto legato alle sue donne. Anche Pupi sostiene che uno dei punti di forza della squadra fossero il clima e la qualità dello spogliatoio, del gruppo. Lui era ben inserito, non si comportava da prima donna, come avrebbe potuto, era alla mano come tutti, si dialogava volentieri con lui. 
di eraldo pecci. Il Toro non può perdere (Rizzoli, 2013)

 

  Come si allenava
Per calciare con precisione in porta, vi insegno un trucco dei vecchi allenatori (i maestri, per intenderci). Segnate sopra un muro dei quadrati e numerateli così: nella riga sopra dall’uno al cinque; in quella sotto dal sei al dieci. Mettetevi a dodici, quindici passi di distanza. Ottimo, così. Ora cercate di mandare il pallone a colpire il quadrato numero quattro. Non ce l’avete fatta? Riprovate. Fino allo sfinimento. Ecco, avete visto? Ci siete riusciti. Adesso tocca al sette. E così via. Con questo sistema, un giovane attaccante del Torino diventò un asso: Paolino Pulici, soprannominato Puliciclone.
di darwin pastorin. Ragazzi, questo è il calcio! (Gallucci, 2013)

 

Dell’uomo si dice: è ancora infantile, ma è un ottimo compagnone. Sa stare agli scherzi più crudeli a cui lo sottoponiamo. Accetta con bonomia, ride divertito, magari dopo essersi arrabbiato. A ventidue anni si è ancora ragazzi, però mi accorgo che sta maturando. Matrimonio e paternità (una figlia) contribuiscono assai. 
di fulvio cinti, Stampa Sera, 6 novembre 1972 

 

  La sua spalla: Ciccio Graziani 
«Ci chiamarono i gemelli: quel soprannome, dopo, lo attribuirono a tante altre coppie, ma non credo che nessuno batterà mai i nostri record. Lui era un generoso e io un indiano, andavo per i cavoli miei. Insieme, diventammo il giocatore ideale. Anche se con un centrocampo così era facile segnare: tra Pecci, Zaccarelli e Claudio Sala arrivavano palloni che erano un meraviglia. Io vorrei tanto che qualcuno prendesse il nostro posto: non mi ruberebbe nulla, così noi non abbiamo rubato nulla al mito del Grande Torino» .
di emanuele gamba, la Repubblica, 23 settembre 2002

 

Le differenze tra i gemelli del gol
Graziani è un centravanti moderno, lo chiamano “generoso” perché si mette a disposizione di tutti. Pulici no. Pulici se ne sta lì davanti ad aspettare il momento buono per calciare a rete. Graziani è universale, Pulici particolare.
di darwin pastorin. Tempi supplementari: partite vinte, partite perse (Feltrinelli, 2002)

 

  I suoi avversari
«Tanti. Burgnich l’avversario più corretto, Morini il più coriaceo, una volta mi ha anche morsicato sulla schiena ma in genere s’aiutava con le mani. Berti Vogts il più cattivo, ma anche Galdiolo non scherzava. Pronti via, Pecci mi dà la palla larga, Galdiolo mi falcia da dietro, mi sbatte fuori dal campo e mi dice: o ti fermo così o non ti fermo proprio. Soddisfazioni. Prima partita col Cagliari. Sottopassaggio. Sento uno che mi tocca sulla schiena, mi giro. È Riva. Vai tranquillo, mi dice, noi che veniamo dal Legnano sappiamo cavarcela. Be’, mi sono sentito più alto di un metro. E il mio primo gol lo segnò proprio all’Inter, saltando Burgnich. Che si complimenta mentre torno a centrocampo: bravo Pulici, vai avanti così, magari non insistere proprio oggi. Un’altra volta segno un bel gol in slalom alla Fiorentina e Mazzone mi chiama a sé. Cosa vorrà? Mi accosto. Bravo, me li hai ammazzati tutti, mi dice, e mi stringe la mano».
di gianni mura, la Repubblica, 3 marzo 2014

 

Le sue vigilie
Il bomber del Torino Paolo Pulici (scudetto 1976) faceva l’amore anche la domenica mattina. 
di alessandro pasini, Corriere della sera, 22 agosto 2007

 

Pulici e lo spirito del Torino
«Noi del Toro siamo così, anche se ci rubano il cuore troviamo il modo di andarcelo a riprendere». 
intervista di giorgio porrà, Sky, maggio 2016

 

  Il critico tv tifoso
Ha l’aspetto del vecchio guerriero. Davanti a Giorgio Porrà, misura le parole (come ha sempre fatto), e forse nasconde qualche antica ferita. Ma è sempre lui: l’implacabile attaccante, capocannoniere tre volte (’73,’75,’76), il lottatore d’area, il giocatore che più di altri ha incarnato lo spirito granata. Dice che in area era un incosciente e i suoi compagni, nello spogliatoio, lo esortavano a essere incosciente
, cioè a seguire il suo istinto.Pulici è fatto così, della corazza dei guerrieri. 
di aldo grasso, Corriere della sera, 18 maggio 2016

 

Pulici e i derby con la Juventus
   Paolo Pulici, cos’è il derby della Mole? «Una partita che la squadra più forte e più potente, cioè la Juve, può perdere sempre ».
   Cosa voleva dire, per uno del Toro, vincere il derby? «Voleva dire che molti operai della Fiat, e i granata erano assai più dei bianconeri perché a Torino si tifa Toro e non Juve, avrebbero avuto un lunedì di gioia pura, di orgoglio. Il lavoro sarebbe pesato meno».
   E oggi? «Oggi gli operai neanche ci sono più, alla Fiat».
di maurizio crosetti, la Repubblica, 29 novembre 2012

 

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Incarnare
A noi granata piace pensare (e sicuramente è così) che quella maglia sia in grado di cambiare i giocatori. Paolo Pulici, indimenticato bomber del Toro degli anni Settanta, ancora oggi risponde così a chi gli chiede se tifa Toro: “No, non tifo Toro. Io sono il Toro”.
di piero vietti, il Foglio, 26 maggio 2012

 

Quando Pulici diventa Puliciclone
Più che un nome un ritratto. Con questa parola di sapore futurista venne etichettato Paolo Pulici, ala del Torino. Nell’epiteto c’è tutto il vorticare delle gambe e l’azione talvolta confusionaria del giocatore. 
di corrado sannucci, la Repubblica, 20 dicembre 1992

 

  Lui, il suo soprannome e Gianni Brera
  Come racconterebbe Pulici a chi non l’ha visto mai?
«Sono stato un giocatore un po’ particolare, nel senso che pensavo esclusivamente a chiudere l’azione della squadra, su suggerimento dei compagni, quindi dovevo per forza stare dentro l’area di rigore per cercare di sprecare meno energie possibili, per essere lucido e fare gol. Una cosa bella che mi dicevano era che io finivo il lavoro del resto della squadra. Quando segnavo, lo finivo nel modo migliore. Quando sbagliavo, lo rovinavo. Questa era una responsabilità».
    Che vita faceva un calciatore negli anni 70?
«Era una vita molto più rigorosa e severa, credo, rispetto a oggi. Nello spogliatoio trovavi al muro anche il foglio su cui c’erano scritti i giorni in cui potevi fare l’amore con tua moglie o no. Adesso non credo che questa cosa esista ancora. Massimo entro le 10 e 30 bisognava andare a letto, a letto in casa tua voglio dire, e queste regole non permettevano di andare in giro per la città a festeggiare o far altro. Ci si riposava di più e meglio. Le televisioni non erano tante, esisteva solo la RAI, per cui se certi programmi non ti interessavano andavi a dormire anche prima. Tante piccole cose che sommate facevano la differenza».
    E il rapporto con i giornalisti?
«Direi un rapporto diretto. Venivano al campo, le interviste si facevano negli spogliatoi. C’era un legame più concreto, ci si conosceva tutti benissimo, non c’era nessuno che scriveva qualcosa senza averti fatto una domanda. Adesso è un problema parlare con il diretto interessato. A me non piace che si scriva di qualcuno senza essersi confrontato con lui, secondo me non andrebbe fatto, per una forma di rispetto. Ma se uno va a ballare fino alle 4 del mattino e il giornalista non sa dove trovarti, capisco che scriva l’articolo per conto suo. Sono due campane che suonano stonate».
   Com’è nato il soprannome Puliciclone?
«La partita non la ricordo. Sulla Gazzetta Gianni Brera scrisse una cosa tipo: si abbatte un Puliciclone su questa tale squadra, da lì Puliciclone non me l’ha tolto più nessuno. Ai tifosi del Toro è piaciuto subito il soprannome che mi aveva dato. Gli altri giornalisti inizialmente mi prendevano in giro, poi hanno cominciato a usarlo anche loro». 
    Lei si rivedeva in quel soprannome?
«Sì, molto, perché nel mio gioco c’era davvero qualcosa di ciclonico, non mi fermavo mai, non è che ci stavo troppo a pensare se davanti a me avevo tre avversari, non è che mi dicessi oddio che faccio. Andavo sulla palla e se la perdevo pazienza, avrei fatto gol in un altro momento. La maggior parte degli avversari, da Cuccureddu a Gentile, a Facchetti, mi dicevano: sei immarcabile, sei cattivo come una peste. Questa cosa mi dava grande soddisfazione. Quando sto tra i tifosi, ancora mi chiamano Puliciclone. Come a Cagliari Gigi Riva è sempre Rombo di Tuono».
    Ne ha mai parlato con Brera?
«Del soprannome no, mai. Ogni tanto avevamo un confronto di idee sul calcio. Un paio di volte è capitato di trovarci a cena all’Assassino, un ristorante di Milano, in occasione della consegna di qualche premio. Ma non gli ho mai chiesto di Puliciclone. Lui di calcio ne sapeva, e tanto. Era sempre allo stadio a vedere le partite, non come adesso che puoi commentarle anche guardandole alla televisione. Anche se aveva qualche critica da muoverti, tu sapevi che di calcio ne aveva visto, spesso anche agli allenamenti».
    Ora gli allenamenti non si possono più guardare, lo sa?
«Questa cosa non l’ho mai capita. Diceva la buonanima di Rocco che in allenamento si fanno ventimila cose che in una partita non succedono mai. Una squadra si giudica in partita, ma al campo d’allenamento ci si conosce, si possono capire i motivi di una scelta o di un’altra, di un comportamento o di un altro. Chiudere i campi mi pare assurdo. Se anche i tifosi venivano al campo per fischiarci, sapevamo che quei fischi avevano lo scopo di darci una mossa. Servivano anche i fischi durante la settimana per vincere le partite la domenica». 
   A lei piaceva il calcio che piaceva a Brera?
«Si mette l’accento sul difensivismo di Brera. Secondo me per Brera la partita di calcio era invece racchiusa nel tiro in porta. Del resto per quale motivo un tifoso va allo stadio? Non credo che ci vada per il possesso palla. L’adrenalina viene dalla palla che entra o che esce, da un portiere che para, un palo, una traversa. Oggi nelle partite se ne contano dieci o dodici a partita, una volta ce n’erano anche cinquanta. Se tieni la palla per 89 minuti, a me ne resterà sempre uno per fare gol. Se il gol lo faccio e vinco 1-0, dopo tre giorni la gente si ricorderà di quello, non di come hai giocato. Per me un tiro solo in 45 minuti è una noia. Brera li avrebbe massacrati, questi allenatori. C’è possesso e possesso. Se lo fai nella metà campo avversaria come il Barcellona di Guardiola è un conto. Quello era un possesso per far gol. Se lo fai sotto la tua area di rigore, chi se ne frega: lì lo fai perché te lo lasciano fare. Adesso misurano la percentuale del possesso. Se noi facevamo il possesso palla, prendevamo i fischi. Si chiamava melina». 
dall’intervista per il documentario C’era una volta Gioânn – 100 anni di Gianni Brera (3D Produzioni – SkyArte)

 

La tripletta al Bologna dell’8 febbraio 1976 disegnata da Carmelo Silva per il Corriere d’informazione

 

Quando segnò con un colpo di pugno
Poi c’è la storia del pugno (e di qui, figuratevi la valanga di titoli: Pulici mette ko il Napoli; il destro di Puliciclone; Pupi come Clay e via discorrendo) che porta il secondo gol al Torello: la sequenza è talmente veloce che il povero Serafino arbitro perde la faccia. Complimenti, Serafino. Mica è parente del famoso ciccione e claqueur ora in maglia azzurra, ora in bianconero, ora in giallorosso? Mai visto un arbitro sbagliare con tanta soavità.La prossima volta, si pianti come un palo al fondo d’un filare. Lì sta bene davvero.
*
Il Giûan della Bassa mi rimprovera dalle sue colonne del martedì. Dopo avermi lodato perché il “pugno di Pulici” non è rimasto nella mia penna (ci mancherebbe altro!) dice: non dovevi strapazzare l’arbitro. E già. Dovevo invece rivolgergli elogi, come fai sempre tu, o Giûan, anche quando i vari Serafini s’addormentano e vanno nel pallone. 
di giovanni arpino, la Stampa, 17 e 19 novembre 1975

 

disegno di Franco Bruna, la Stampa, 26 settembre 1981

 

Paolo e i ritiri
Pulici era oltremodo portato per le attività manuali. Bravissimo nel creare scoubidou, quei portachiavi di corda che si facevano quando si vestiva la divisa militare e che ogni tanto si vedono ancora oggi. Era un modo per passare il tempo in caserma. Creava pure dei modelli di barche, auto e mille altre cose. Metteva insieme quei piccoli pezzi di legno o di lamiera con una pazienza da certosino, ottenendo buoni risultati. Girava sempre con cacciaviti di diverse misure in valigia. Una volta, in ritiro in un albergo della Liguria, la società aveva ordinato alla direzione di chiudere a chiave i frigobar in tutte le camere. Fu una cosa che Pupi non gradì. “Ce lo dovevano chiedere”. Con i suoi cacciaviti, mentre noi facevamo il tifo, aprì, smontandoli, tutti i frigobar. Li vuotò e li rimontò in tempi record, nel tripudio dei presenti. Non trovammo più frigobar chiusi.
di eraldo pecci. Il Toro non può perdere (Rizzoli, 2013)

 

  Paolo e la sua famiglia a Natale
Gli occhi di Paolo Pulici che ti fissano dal manifesto pubblicitario (di una marca di jeans) sono d’acciaio, fermissimi. Da uomo della frontiera, da autentico duro. Il sospetto che questo Pupi faccia parte della scuola di Bud Spencer, sia un duro da copertina, con aria truce ma col cuore anche troppo tenero, è subito molto forte. Che cosa succede nel giorno della festa? “Andiamo a messa di mezzanotte – spiega sorridendo Pupi – come facciamo ogni anno. Per la nostra famiglia è una tradizione alla quale nessuno vuol rinunciare”. Tutto ciò per quanto riguarda la notte di Natale. I doni, in casa Pulici, tengono impegnata la bambina e il papà per tutta la mattinata. Poi c’è il pranzo con i genitori, una faccenda molto tradizionale e festosa. “Nella sera poi – commenta Pulici – ci riuniamo in tanti e giochiamo a tombola. È una cosa semplice e bella: ci si rende conto, in queste giornate, che la famiglia è quanto c’è di più importante al mondo”.
di beppe bracco, la Stampa, 24 dicembre 1981

 

  Paolo e certe sue capacità 
Ai Mondiali di Argentina nel 78 la federazione e gli sponsor ci avevano riempito di materiale, oltre al vestiario sportivo. La squadra raggiunse la fase finale, il soggiorno fu lungo e noi spendemmo soldi tra coperte di guanaco, manifatture locali e ricordini vari. Comprammo tanto che al momento di partire nelle valigie non ci stava niente. A nessuno. Dovevamo lasciarle nel corridoio del nostro ritiro entro le 7 del mattino, ora in cui sarebbero state prelevate, trasportate all’aeroporto e caricate sul charter. Pupi, dopo cena, iniziò a fare i bagagli di tutti; quattro-cinque valigioni a testa. Incredibilmente riusciva a farci stare ogni cosa. Arrotolava i poster e dentro di metteva i calzini  e le mutande, questo qui, questo là, nessuno spazio inutilizzato, e ci stava tutto. Detta così sembra facile. Sono pronto a testimoniare in tribunale, se necessario, che assistemmo a un miracolo. Dopo una miriade di bagagli, pensavamo fosse finita. Apparve in vece in corridoio Scirea con le valigie che gli scoppiavano, il contenuto che spingeva come un vulcano. Gaetano era timido, riservato, e si era arrangiato da solo. “Dove vai Gai? Dammi qua” lo bloccò Pupi. Dieci minuti e anche quelle valigie erano in fila, belle ordinate e regolari come le altre. Meglio delle valigie, Pupi, faceva solo i gol.
di eraldo pecci. Il Toro non può perdere (Rizzoli, 2013)

 

Due canzoni per lui
  Facci un goal
Il pallone è impazzito / Come gira non si sa / Troppo gonfio si è scucito / Basta poco e scoppierà / Ci vorresti tu / Fuoriclasse sei / Che non sbaglia mai / C’è chi attacca senza schemi / Chi difendersi non può / Troppe reti in fuorigioco / L’arbitro non fischia più / Ci vorresti tu / Vero goleador / Che non sbaglia mai / Campione segna per noi / Tira e facci un goal / Campione segna per noi / Tira e facci un goal / Non si vince, non si perde / Non si riesce a pareggiar / Chi va in rete non esulta / Non si vuol fare abbracciar / Ci vorresti tu / Fai miracoli / E non sbagli mai / Campione segna per noi / Tira e facci un goal / Campione segna per noi / Tira e facci un goal / Il tifoso ormai deluso / La sua fede non ha più / Troppe volte ti ha invocato / Solo tu lo puoi salvar / Ora gioca tu / Scendi in campo e sai / Che non sbaglierai / Campione segna per noi / Tira e facci un goal / Campione segna per noi / Tira e facci un goal.
di gli statuto

 

Il Ciclone
Io, quand’ero giovane / amavo molto il mito dei super eroi / storie, le più fantastiche / con Batman, l’Uomo Ragno e Superman / Ma ci sono uomini / con lo stesso concentrato di energia / veri guerrieri indomiti / che ci colpiscono la fantasia.
Paolo, un nome semplice / numero 11, la maglia del Torino / Paolo, là nell’arena / un cuore grande e un grande fiuto per il gol / C’era la dinamite / in quelle leve che correvano veloci / e tutti lo rispettavano / e lo temevano, e si dicevano:
Quando parte Pulici / è un falco che si avventa sul pallone / e fa tremare gli argini / è un treno che travolge la stazione / È un ciclone, Pulici / è un tir di generosità / non lo puoi rallentare / gli puoi solo sparare / ma neanche il piombo lo fermerà
È come un missile / che passa sopra le gengive dei terzini / È  un gran viavai / un leone che non è domato mai / A tratti, un po’ egoista / ma un eroe che c’ha il sinistro che conquista / è un fulmine incontrollabile / un razzo cosmico, un piede atomico.
Quando parte Pulici / è un falco che si avventa sul pallone / e fa tremare gli argini / è un treno che travolge la stazione / È un ciclone, Pulici / è un tir di generosità / non lo puoi rallentare / gli puoi solo sparare / ma neanche il piombo lo fermerà
di flavio oreglia

 

Perché si scrive una canzone su Paolo Pulici
«Se avessi dovuto dar retta alla mia passione da tifoso per l’Inter avrei dovuto scegliere Boninsegna ma Pulici, quando l’ho conosciuto nel ’95, mi ha folgorato. Era il mio allenatore nella Smemoranda e sono stato conquistato non solo dalle sue doti tecniche ma soprattutto da quelle personali: il suo rigore, il suo impegno sociale, la sua umanità sono una rarità nel calcio e proprio perché non accetta compromessi Paolo oggi si dedica ai ragazzi e non è su una panchina importante».
La prima volta che l’ex ala sinistra del Torino ascoltò Ciclone, suonata da Oreglio al pianoforte nella hall di un albergo di Como, si commosse a tal punto che pronunciò una frase che, per l’autore di testo e musica del brano, vale più di mille «momenti catartici». «Mi disse: “Ho sudato più in questi 3 minuti che in una partita di calcio”. La canzone era nata per caso nel ’96, sull’onda dell’ispirazione del personaggio, e divenne già nel ’98 un videoclip ma non se n’è accorto nessuno. Per tutti io ero il comico cabarettista di Zelig e pochi conoscevano i miei trascorsi nei gruppi rock. Io sono contento di aver aggirato il sistema per uscire adesso con un prodotto da cantautore-musicista e per l’occasione ho rispolverato la maglia numero 11 che Pulici mi aveva regalato in segno di stima. L’ho messa nella mia stanza sotto la sua gigantografia, sperando di assomigliargli almeno un po’». 
intervista di fausto narducci a Flavio Oreglia, la Gazzetta dello sport, 29 ottobre 2003

 

Quanti gol farebbe oggi
Era così veloce, così potente, così ciclonico per l’appunto che gli capitava, nei primi anni, di arrivare troppo in anticipo sul pallone: in ritardo mai.Se pensate che secondo Mazzarri Pulici era soltanto mancino, capite bene che per allenare il Toro servirebbe almeno un esame preliminare di storia. Paolino Pulici è la storia del Toro. Dopo l’epopea dei Grandi nessun granata è stato amato quanto lui. I vecchi suiveurs del Filadelfia lo adottarono dal primo giorno, e non smisero mai di crederci nemmeno in quegli anni in cui la strapotenza fisica ancora non era sincronizzata con la scelta di tempo, e i gol anziché fioccare svanivano quando già sembravano fatti. Altri tempi? Ma va? Tempi in cui il bottino di Pulici, come degli altri grandi attaccanti della sua epoca valeva molto, ma molto di più rispetto a quello dei contemporanei. Perché primo non prenderle, perché si marcava a uomo e saltato il tuo c’era pur sempre il libero, perché le regole e gli arbitraggi di allora tutelavano chi il gioco lo distruggeva, non chi lo creava.
Di sicuro i 172 gol in granata di Pulici sarebbero stati tanti di più, come del resto quelli di Riva, di Boninsegna, di Bettega. Ma chi li ha ancora negli occhi ne conserverà indelebile il ricordo. A cominciare da quel fantastico pallonetto a Zoff, in piena corsa e da quasi metà campo, che mi valse, o mi costò, un bacio da Ormezzano.
di gigi garanzini, la Stampa, 22 aprile 2020

 

Ipotesi di bilancio
Il Torino mai ebbe giocatore più sanguigno, anche teatralmente, anche grandguignolescamente (certi turbanti, il polso fasciato per mesi, quel cadere urlando come se l’avversario lo stesse squartando, lo stesse gettando in aria per appenderlo a un gancio da macellaio). Pulici è stato un grande, grandissimo giocatore di un piccolo calcio.
di gian paolo ormezzano, la Stampa, 23 agosto 1980

 

Pulici allenatore di bambini
A voce alta, la mia squadra suona più prosa che poesia. Però c’è Pulici, Paolino Pulici, Pupi, Pupigol, Puliciclone, potenza, velocità, istinto e acrobazia fatte calciatore, fatte ala sinistra. Un do di petto come calciatore: il petto sempre in fuori, in effetti, e i gol che già li vedevi brillanti sui piedi o incornati sulla fronte appena entrava in campo, prima ancora che iniziasse le partita.
Arrotolava i calzoncini sui fianchi e scopriva due querce come cosce. Esultava a balzi, le braccia al cielo: sembrava un ginnasta pronto all’esercizio. Scatti, scarti, contropiedi, rovesciate, destro, sinistro, testa. Si sollevava in area e ci rimaneva, in aria. Gli avversari avevano il tempo di saltare, scendere, risaltare di nuovo, riscendere, provare il fallo, e lui sempre là, le ali alle reni, più in alto di tutti. Risucchiava il pallone con la fronte e lo girava in rete: una cannonata. 
L’ultima volta che l’ho visto, allacciava le scarpe a un bambino, un fantasmino pallido che sbucava da una casacca rossa molto più grande di lui. Quel balbettio di un metro per diciotto chili si è staccato dal gruppo e gli ha chiesto: mi leghi le scarpe? Pulici si è inginocchiato, ha stretto le stringhe e ha fatto il nodo: va bene? Sì, ha risposto il bambino. Allora vai a gicoare e cerca di dare il massimo, lo ha incoraggiato Pupi. I bambini sono quaderni bianchi, mi ha raccontato, dipende da come li scrivi.
di  gian luca favetto. Se dico radici dico storie (Laterza, 2011)

 

  Perché non allena più i bambini
   I pulcini del Tritium restano la sua oasi? «Non più dopo trent’anni, ma il virus non c’entra. Tornerò al campo e continuerò a scherzare con i bambini, ma non li alleno più da qualche mese: qualcuno ha fatto il furbetto con il mio nome e non è giusto».
   I valori di Pulici non invecchiano… «Io non sono vecchio: io sono antico. La roba vecchia si butta, quella antica ha valore».
   Il gol dello scudetto è quello più bello? Ce l’ha anche sul profilo WhatsApp…
«I gol sono come i figli: tutti belli. Ognuno di loro è diverso e speciale, penso anche al pallonetto che feci a Zoff e ha ispirato Messi…».
   In che senso Messi? «Me l’ha detto lui, quando l’ho incontrato a Milano prima di una partita di Champions contro l’Inter. Tutto questo perché Guardiola gli ha fatto vedere e rivedere il dvd Semplicemente Pulici con i miei gol. Io mi sono messo a ridere, ma Guardiola è così: l’ho conosciuto a Trezzo quando giocava nel Brescia e mi ha massacrato di domande sul Toro e sulla mentalità granata. Poi negli anni ho scoperto che le regole che avevamo noi al Filadelfia le ha imposte a tutto il Barcellona, dalle giovanili alla prima squadra. Con Guardiola ci sentiamo ancora adesso, vuole sapere tutto perché ripete sempre: “Le cose che funzionano, si possono replicare”».
intervista di gianluca oddenino, la Stampa, 22 aprile 2020

 

 

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Orson Welles diceva: il montaggio è tutto.
A cura di Angelo Carotenuto
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