La vita provvisoria dei ciclisti

Sopravvivere. Questo andavano dicendo da un paio di giorni i ciclisti dentro la pancia del gruppo al Giro dei Paesi Baschi, dove cadevano come certe ciliegie che si afflosciano all’improvviso prima di essere mature. Sopravvivere. Ma se lo ripetevano per ridere, per non pensarci davvero, una specie di esorcismo, di solito usiamo il verbo sdrammatizzare. Invece accade che lungo una strada che porta a Villarreal de Álava, in basco Legutio, a 36 km dal traguardo di una tappa come un’altra, il dramma e la sopravvivenza camminano di fianco a te, si fermano con te, sbattono su un masso, su un cartello, finiscono dentro una canalina per lo scolo fatta di cemento. È così che fanno le parole quando escono dalle metafore e si riprendono il loro pieno significato. Non ti avvertono. 

 

 

Jonas Vingegaard è rimasto fermo a terra. È stato portato via in barella con collarino e maschera d’ossigeno. La Visma ha fatto sapere che è rimasto cosciente, si è rotto una clavicola e diverse costole, rimarrà in ospedale per precauzione. Avrà bisogno di 10 settimane per riprendersi, potremmo finanche vederlo a Firenze per il Tour, in quali condizioni vai a sapere. Remco Evenepoel si è rotto la clavicola e la scapola destra. Salta l’Amstel Gold Race e la Liegi-Bastogne-Liegi vonta negli ultimi due anni. Primoz Roglic non ha fratture ma ha lasciato la corsa, Jay Vine ha una vertebra cervicale e due toraciche che sono rotte.

Mattias Skjelmose, il danese ripartito come leader della corsa, ha detto che la strada era accidentata, stavano lottando per le migliori posizioni e sono arrivati alla curva troppo velocemente. Lui è rimasto in piedi per caso. «Non è colpa di nessuno» ha detto, anche se l’asfalto era rovinato dalle radici degli alberi, ma «niente che non si trovi anche altrove» ha detto Juan Ayuso, il più giovane tra i forti o il più forte tra i giovani, e già rassegnato all’ìdea che questo sia il mestiere, questo sia il massimo della sicurezza a cui si può ambire. L’asfalto rovinato, le radici sporgenti, nulla che non si trovi pure altrove. La vita provvisoria del ciclista. Un giorno sei maglia gialla, il giorno appresso sei un paziente in ospedale.

 

PANORAMI

La vocazione. Un mestiere per poveri

 

Quando morì il povero Wouter Weylandt al Giro d’Italia, Gianni Mura infilò due pezzi memorabili un giorno dietro l’altro [10 e 11 maggio 2011], raccontando la vita di questi ragazzi che per lavoro spingono una bicicletta sulle strade di mezzo mondo, e devono spingerla veloce. 

 

I poveri sono matti, diceva Zavattini. Anche i ciclisti, vorrei aggiungere. Non fuori di testa, ma con quel briciolo di pazzia che li porta a scegliere uno sport di estrema fatica, di molti rischi, di guadagni relativamente bassi. A volte ho pensato che il ciclismo fosse, per i poveri, una soluzione come il seminario: una bocca di meno in casa. 

La vocazione serve ai preti e serve ai ciclisti. A chi stanno più a cuore le anime, a chi i corpi. Il ciclista si guadagna il pane lontano da casa, come gli emigranti stagionali e i soldati, e dico soldati perché esiste il capitano per definizione, mentre il tenentino è un giovane di belle speranze e il sergente è il più vecchio, tant'è che lo si definisce anche direttore sportivo in corsa.   Quelli che hanno studiato dicono che il ciclismo è una chanson de geste, tirano in ballo Omero. Qui tante cose sono diverse da quello che sembrano. Anche pedalare in gruppo è rischioso, basta sbandare di cinque centimetri e si fa come una palla da bowling. Si fa fatica sempre, ad attaccare e ad inseguire, a salire e a scendere, a tirare la volata come a vincerla, a fare una cronosquadre oppure una crono individuale. Un ciclista non sogna certo di morire, ma sa che può capitargli.

Il ciclismo è uno sport legato alla terra, anche se di quelli che vanno forte si dice che volano. È un modo di dire. Li chiamano falchi, aquile, aironi, ma sono ragazzi senza difesa che non sia l'attenzione, che a volte non basta, e la buona stella. 

Il ciclista è legato alla terra come la morte contadina. Le immagini mostrano un corpo steso all'ombra di grandi alberi fioriti di bianco. Il ciclista deve imparare a capire le curve della strada, quelle comode e quelle strozzate, a intuire le buche, a sperare che non ci sia ghiaietto e nessuna auto perda olio. Deve sputare l'anima in salita, perché la droga, per chi la prende, non risolve tutto. Aiuta forse a morire prima, ma lontano dalle strade, quando emboli e tumori s'insediano in un corpo che ha bussato alla farmacia sbagliata. Deve forzare in discesa, 80, 90, anche cento all'ora che i telecronisti indicano sul tachimetro della grossa moto. Le auto, molto avanti o dietro, non terrebbero quella velocità.  

Il sogno di Lance Armstrong, l'ha scritto nel suo primo libro, era di morire in un campo di girasoli, in Francia, dopo una discesa a 200 all'ora.  Mario Fossati, quando ha scritto per la prima volta di una «discesa a tomba aperta», sapeva di che si trattava. Occorre aver sentito il rumore dei freni, il fischio dei tubolari larghi pochi millimetri, occorre aver visto la danza macabra dei corridori sull'orlo dell' abisso. Il ciclista sa che può morire e corre per vivere. Il suo paradiso è in pianura.
[di gianni mura, Repubblica]

 

 

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FRONTIERE

I rapporti, i freni, la maniera di guidare

 

Sono passati tredici anni e quelle parole valgono dalla prima all’ultima. Forse si cade di più, forse di meno, non importa. Si cade peggio, questo è. Le cadute nel ciclismo moderno non sono più numerose di prima, ma causano molti più danni ha scritto Gaétan Scherrer su L’Équipe spiegando e chiedendo in giro cosa succede. 

Romain Bardet, corridore francese, ha visto tutto in tv da Tenerife. Il mese scorso una commozione cerebrale è toccata a lui, alla Tirreno-Adriatico, Dice che la situazione sta diventando preoccupante perché adesso quando cade uno, cadono a grappoli. «Quando succede, mi dico che il ciclismo è un miracolo permanente. Non abbiamo più spazio per errori».

Rudy Molard sui social network invita a una consapevolezza maggiore del pericolo e dice di non riconoscere più il suo sport. 

È aumentata la velocità media delle corse. Sono appena state corse una Milano-Sanremo e un Giro delle Fiandre da record. Questa è la causa principale del problema, osserva Valentin Madouas. Sulle bici l’evoluzione delle marce è incredibile, ogni anno si sale di una. «Quando sono diventato professionista nel 2018 – dice – tutti usavano il 53-11 ​​ma siamo passati rapidamente al 54 e oggi nelle tappe pianeggianti devi spingere il 56 se vuoi seguire il gruppo. Prima in volata c’erano solo i velocisti, ora ci sono tutti: i capitani delle squadre, i leader della classifica, i loro compagni di squadra». 

Thierry Gouvenou è il dirigente che per ASO si occupa dei tracciati. La sua idea è che l’esplosione della velocità sia tale che «non è quasi più una bicicletta»

Un corollario della velocità sono i freni a disco, problematici perché permettono ai corridori di frenare più tardi, così si corrono più rischi e quando si cade si va giù a una velocità superiore e con dei mezzi più pesanti. Gli spazi di frenata si sono accorciati, ma non si ha il tempo di vedere il pericolo, in mezzo a grumi di decine di persone che avanzano tutte assieme, come se fossero una. Dice Bardet che cadere oggi è una roulette russa, «i freni a disco tagliano come rasoi».

 

TRAME

Una cultura conservatrice

 

Molti corridori, per esempio Pello Bilbao, si aspettavano un Giro dei Paesi Baschi meno pericoloso, perché gli organizzatori hanno inserito strade meno strette del solito. Lui è di Guernica. Molte di quelle vie le conosce bene, ecco perché gli sta venendo il sospetto che siano i ciclisti stessi a creare il pericolo. «Dobbiamo pensare un modo diverso di competere. Può sembrare paradossale ma oggi tutti i ragazzi hanno una tale padronanza della bicicletta che cercano inconsciamente di raggiungere limiti che prima non osavano immaginare. Con i freni di prima, sotto la pioggia andavi piano, ti lasciavi un margine di sicurezza. Ora non più. Avere fiducia nella bici incoraggia a commettere errori». Bilbao sostiene che manca un dosaggio del rischio, in uno sport dove a volte c’è nervosismo a 150 km dal traguardo.

Madouas suggerisce un limite ai rapporti, «altrimenti tra due anni avremo montato tutti il 58-11». Bardet suggerisce invece di rinforzare la segnaletica, perché «non ho mai visto un comportamento pericoloso da parte di un ciclista in una curva ben segnalata, con uno steward che fischia o un cartello con un segnale sonoro». 

Bardet da tempo combatte una sua battaglia personale contro gli auricolari. Vorrebbe metterli al bando e lo ripete, ma la stragrande maggioranza del gruppo ritiene che invece prevengano più danni di quanti possano causarne. È anche complicato distinguere le soluzioni in un mondo tendenzialmente conservatore. Fino a 25 anni fa anche l’uso obbligatorio del casco era contrastato. Dovette morire in corsa Andrei Kivilev al Tour de France, per convincere tutti che non se ne potesse fare più a meno.

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PROSPETTIVE

La chicane prima della foresta di Arenberg

 

La Roubaix, per esempio. Il gruppo si è diviso in queste ore sulla chicane allestita all’ingresso della foresta di Arenberg, pensata per ridurre la velocità di ingresso – un tratto in discesa – da 60 km orari fino a 25-30. 

«Non possiamo essere contrari all’idea di rallentare la corsa e allungare il gruppo» ammette Marc Madiot, manager della Groupama-FDJ, due volte vincitore alla Roubaix [1985 e 1991]. Se nell’aria si avverte un ma è perché il ma esiste. Chi è contrario, pensa che la chicane non risolva nulla. Anzi. Davanti ci sarà bagarre come avrebbe detto Adriano De Zan, e se sbaglia uno siamo punto e daccapo, vanno tutti giù per terra, per giunta in una chicane. Un groviglio. Madiot si è spinto a dire che di là non si passa senza cadere. Dice L’Équipe che Gouvenou è consapevole di questi timori, lei ha condivisi con i corridori. «Ho scritto loro avvertendoli che ci saranno maggiori frenate – spiega – ma mi hanno risposto che preferivano frenare forte rischiando di cadere sull’asfalto anziché entrare nella foresta a 60 km orari»

Se la proposta fosse arrivata prima, fanno sapere gli organizzatori della Roubaix – il gruppo Aso da cui dipende anche il giornale francese – allora avrebbero provato a ipotizzare una soluzione diversa, a 500 metri dalla foresta. La carneficina di giovedì al Giro dei Paesi Baschi – dicono Luc Herincx e Alexander Roos per L’Équipe – ha dimostrato che per ridurre gli incidenti ci vuole molto più di una chicane.

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