Il papà di Serena Williams è un tipo da Oscar con Will Smith

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Il papà di Serena Williams è un tipo da Oscar con Will Smith

 

     Come succede con il calcio, al cinema il tennis si è sempre portato dietro un vecchio cliché. Non esistono bei film sul suo mondo, perché il tennis non si può filmare. Quando è finto, sembra troppo finto. Come se poi i match di boxe sullo schermo fossero meno improbabili. Ma se è vero che il tennis è la nuova boxe, se è il nuovo teatro di ascese dalle periferie e riscatti dalla povertà, allora stanotte si è rotto uno schema, quando l’Oscar al miglior attore è andato a Will Smith per il ruolo di Richard Williams, il papà di Venus e Serena, in King Richard.

Oh, per la verità Will Smith deve essersi sentito ancora dentro i panni di Muhammad Ali, il personaggio del film con cui venne candidato senza fortuna nel 2001. Durante la cerimonia, si è alzato dalla poltrona, ha raggiunto il conduttore Chris Rock e gli ha mollato una cosa tra uno schiaffo e un pugno. Il comico aveva fatto una battuta su Jada Pinkett, la moglie di Smith. «Ti prepari per Soldato Jane 2?».  Una doppia allusione. All’interpretazione di Demi Moore e alla spiegazione data tempo fa dall’attrice sulla scelta di rasarsi per un problema di alopecia. King Richard non ha apprezzato. Un moto improvviso di rabbia. Quando è tornato a sedersi, dalla poltrona ha gridato: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca». Solo in quel momento la platea ha capito che non era uno scherzo. Con la statuetta in mano, Will Smith è scoppiato in lacrime e si è scusato: «L’amore fa fare follie». L’Academy ha preso posizione con un tweet: la violenza non è accettabile in nessuna forma. 

 

Era un altro sport, Will, diamine. La rivista Racquet ha twittato: Il tennis è vivo. Era un altro sport, ma con la stessa dinamica di tante storie di pugilato. Dal ghetto di Compton alla gloria. 

«Quando giocavo sia contro Serena sia contro Venus – ha detto una volta Monica Seles – sapevo che ogni punto era come un match point. Dovevo presentarmi al 110 percento. Il signor Williams ha un film tutto per lui, ma penso che anche mamma Oracene ne meriterebbe uno, perché è una delle donne più straordinarie che abbia mai incontrato. Mi ricorda molto mio padre».  

Quello di Venus e Serena sullo schermo, secondo Steve Rose del Guardian è uno “sfavorito tra gli sfavoriti. Se l’idea dell’umile outsider che supera ogni ostacolo vi suona troppo hollywoodiana, beh, sappiate che è così. La storia di Richard Williams sembra assurdamente improbabile, a prima vista: un uomo nero della classe operaia di Compton, Los Angeles, che decide di allenare le sue due figlie per farle diventare due tenniste mondiali prima ancora che nascano, e scrive un piano di 85 pagine su come fare.

Eppure è successo. Non al cinema. A Compton. Lui stesso un’icona – ha scritto il Guardian  – Will Smith ha dovuto lavorare sodo per incarnare un perdente, ma è la sua migliore interpretazione drammatica fino a oggi. Una vera trasformazione: ingrigito, curvo, stanco e addolorato – nessuno riconoscerebbe in Re Richard il Principe di Bel Air. È un curioso miscuglio di umiltà e determinazione, di compassione e testardaggine. È incrollabile nella sua convinzione e implacabile nel trasmettere fiducia alle sue figlie

Adam White su Independent ha scritto che il personaggio potrebbe sembrare una pagina di Wikipedia glorificata, trattandosi di un progetto prodotto dalle stesse Venus e Serena. Un film eclissato dall’uscita simultanea del libro di memorie di Smith e dai titoli dei giornali sul disastro finanziario che è stato al botteghino. Ma King Richard è molto più complesso di quanto non si lasci intendere all’inizio. Richard è un enigma, un uomo che è un ispiratore brillante e un ignorante meschino. Il film è una sorta di ritorno al passato, alla storia del perdente avvolta in un personaggio drammatico. Ricorda i film patinati degli Oscar di un tempo, il tipo di progetto che Hollywood non fa più

 

Il pregiudizio è uno dei temi del film. La grande fatica fatta dal signor Richard per farsi accettare in un mondo dominato dai bianchi, un mondo che passa dalla condiscendenza altezzosa a quella strategica(sempre il Guardian). Per molto tempo venne sospettato e accusato di decidere a tavolino quale delle due sorelle dovesse imporsi nei match tra loro, fino al celebre episodio di Indian Wells, dove Venus si ritirò pochi minuti prima della semifinale, causando a Serena l’inimicizia della folla e i fischi durante la finale contro Kim Clijsters. Era stata Elena Dementieva in conferenza stampa a innescare il dubbio, buttando là con aria finta distratta che forse, beh, ehm, quel papà, chi lo sa. Dinanzi alla tempesta che si mise in moto, la volta dopo che si presentò al microfono, Dementieva allargò le braccia, sorrise e disse che oh, guardate, io stavo scherzando. 

 

«Non c’era nessuna strategia – ha detto tempo dopo il Re – io dicevo loro solo una cosa: Buon divertimento. I fischi che abbiamo ricevuto da tutto lo stadio sono stati un chiaro messaggio dall’America per noi. Un messaggio che non potremo mai dimenticare. Una scena umiliante per gli afro-americani, in cui la nostra onestà è stata messa in discussione. Le mie figlie sono state trattate come delle criminali, senza dignità. Qualche altra famiglia sarebbe stata trattata allo stesso modo come la mia? La risposta è ovvia». Il giorno della finale, si sentì dire dalle tribune che non c’era posto per i neri nel tennis. Venus e Serena per 14 anni non si sono più presentate a Indian Wells. Se sembra un film di Hollywood, la colpa non è di Hollywood. 

Per la sua scaltrezza, Gianni Clerici lo ha chiamato un Bertoldo nero

 

    “Il talento di Richard giunge da molto lontano, dal giorno in cui lasciò senza avvertire la prima moglie Betty e cinque figli, perché lo disturbava il rumore. Maritato nuovamente con un’infermiera a nome Oracene, fu rapido nel riprodursi altre tre volte, sinché la sposa apparve riluttante, se non proprio alle congiunzioni, a un incremento della natalità. In uno dei suoi frequenti pomeriggi dedicati alla tv – come spettatore – Richard aveva tuttavia avuto una grande idea. Sullo schermo, la tennista Virginia Ruzici andava mostrando un assegno di trentacinquemila dollari, il primo premio di un torneo. Bisognava trovarle una, meglio due avversarie. Richard iniziò allora l’analisi suggerita dai medici Ogino e Knauss, sostituì le pillole antifecondative, e queste doppia astuzia condusse giusto alla nascita di Venus Ebony Starr, il 17 giugno 1980, e di Serena, 26 settembre 1981. Come le bambine ebbero raggiunto i quattro anni, cominciò a bersagliarle quotidianamente con cinquecento cinquanta palle contenute in un carrellino sottratto a un supermarket. di gianni clerici, la Repubblica, agosto 2003

 

Dopo averle così addestrate entrambe, le fece vedere a Rick Macci, il coach di Jennifer Capriati e poi di Andy Roddick, di Maria Sharapova. Rick volò in al campo dell’East Compton Hill Country Club per esaminarle. Tirò fuori delle palline da un tubo e Richard gli disse che preferiva farle giocare con palline vecchie. «Scendiamo in campo – questo è il racconto di Macci – e inizio a scambiare con loro. Venus era già alta, Serena non così matura. Quando abbiamo iniziato a giocare tenendo il conto dei punti, il panorama è cambiato. Il gioco di gambe è migliorato. Era come se facessero scoppiare il burro dai popcorn. Tutto era improvvisamente diverso, appena avevo detto che si trattava di una partita. La cosa mi ha lasciato senza fiato. Non avevo mai visto due bambine sforzarsi così tanto. C’era qualcosa dentro queste due ragazze ed era qualcosa che somigliava alla rabbia. Avevo conosciuto molti ragazzi che ci mettevano tutto l’impegno. Avevo lavorato con molti grandi giocatori. Ma quella era una cosa diversa». 

E qui viene allora la frase che avrete visto nei trailer. Macci che si avvicina a papà Richard, gli mette una mano sulla palla e parlando di Venus gli dice: «Hai in casa il prossimo Michael Jordan». Risposta: «Oh, no, fratello. Ho i prossimi due».  

 

Nel suo bel libro Serena e Venus Williams, nel nome del padre (66thand2nd), Giorgia Mecca dedica a Richard tutta la parte iniziale del suo racconto. Un uomo che passa attraverso il disprezzo altrui e si porta dietro una cicatrice («Ehi, negro»). 

Allora puoi decidere di fare due cose. Abbassare la testa – scrive Mecca – guardare per caso, in diretta televisiva, la finale del 1978 del Roland Garros tra Mima Jaušovec e Virginia Ruzici e cambiare canale pensando che quella scena non faccia parte del tuo mondo, che il tennis sia uno sport riservato ai bianchi. Oppure puoi leggere in sovrimpressione il premio in denaro che ha ricevuto Ruzici per avere vinto, quarantamila dollari, e senza pensarci troppo andare da tua moglie Oracene e dirle più o meno queste parole: «Dobbiamo fare due figli. E pregare che siano femmine». E convincerla ad assecondarti

Perché Richard Williams, scrive Mecca nel suo libro, desiderava che le sue bambine avessero ciò che lui non era riuscito a ottenere, compreso il rispetto. Perché non basta difendersi, bisogna attaccare. Ma per essere convincenti è necessario trovare un posto in cui sfogare la propria rabbia, un posto in cui chiedere conto delle occhiatacce, del razzismo silenzioso, dei paragoni umilianti, un posto in cui togliersi di dosso il complesso di inferiorità e la vergogna. Se non vinci, non ti ascolta nessuno. Richard Williams ha dato in sorte alle sue figlie un corpo. E un corpo, nient’altro che quello, sarebbe stato tutto ciò che avrebbero avuto a disposizione. La loro arma, il punto da cui partire per diventare le più forti tenniste del mondo

 

Venus e Serena sono ancora con i loro corpi ufficialmente sulla scena. La prima ha 41 anni e 7 mesi. Nella classifica mondiale occupa il 494esimo posto, la 62esima statunitense ormai. Non gioca una partita da agosto, non vince una partita dal primo turno dello scorso Wimbledon. Serena ha 40 anni e 5 mesi. Dice sempre di voler battere il record degli Slam di Margaret Smith Court, di volersi prendere il 24esimo Slam, ma è la 244esima al mondo. Anche lei non gioca dal primo turno di Wimbledon, si ritirò dopo 6 game contro Aliaksandra Sasnovich. Fa felicemente la mamma di Olympia, non ancora pronta – in tutta evidenza – al prossimo passo. L’ultimo. 

«Ogni tennista pensa alla parola che inizia con la R dopo cinque anni di circuito, perché il tennis è intenso, per 11 mesi all’anno – ha detto in una intervista a Bloomberg – e io non lo so. Vivo alla giornata e dico sempre alla gente che non sto pianificando un domani sul campo, solo negli affari. Quando si tratta di tennis, pianifico tutto alla giornata».

Ma non tutti i giorni. 

L’ultimo post su Instagram in cui impugna una racchetta è del 6 marzo. 

 

E c’è l’Oscar al documentario su Lusia Harris

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        Lusia Harris era già entrata nella storia del basket come la prima donna a segnare un canestro alle Olimpiadi, era successo a Montréal alle nove del mattino del 19 luglio 1976. La pallacanestro si apriva alle donne con quarant’anni di ritardo rispetto al torneo maschile. Le ragazze USA persero in modo sorprendente dal Giappone all’esordio. Sarebbero poi arrivate fino alla medaglia d’argento, all’ultima partita contro l’URSS. Harris era cresciuta nelle zone rurali del Mississippi. Restava sveglia fino a tardi per guardare la NBA in televisione. Era alta 1 metro e 92. I compagni di classe la chiamavano Quella Lunga e Basta. The Queen of Basketball racconta la sua storia. È una produzione del New York Times – anche questo è un passaggio a suo modo storico. Un giornale che investe in un documentario, e quel documentario vince il premio Oscar. Quattro anni fa la statuetta andò a Kobe Bryant per il miglior cortometraggio, Dear Basketball, basato sulla lettera scritta nel novembre del 2015 per The Players Tribune con cui annunciava il ritiro. Sempre quattro anni fa lo sport si era preso l’Oscar per il documentario con il suo volto più cupo, Icarus, regia di Bryan Fogel, il lavoro che svelava lo scandalo doping alle Olimpiadi di Sochi. 

 

Nella prima partita contro il Giappone, Harris rimase in campo per 26 minuti, segnò 7 canestri su 8 e 3 tiri liberi su 6. Mise il suo nome nella storia di questo sport. Ma era solo la prima volta, Ce ne fu una seconda. Poco meno di un anno più tardi. Il 10 giugno del 1977, al Madison Square Garden, diventò la prima donna scelta in un Draft della NBA. Slalom ne parlò il 20 gennaio scorso sul numero #842, nel giorno della sua morte. 

Era il primo Draft che includeva quattro nuove franchigie: i Denver Nuggets, gli Indiana Pacers, i New Jersey Nets e i San Antonio Spurs. Al settimo giro accaddero due cose. I Kings, che all’epoca erano a Kansas City, scelsero con il numero 139 la medaglia d’oro olimpica del decathlon di un anno prima, Caitlyn Jenner, allora nota come Bruce, prima della transizione di genere. Jenner posò in foto con una maglia numero 8618, il suo punteggio da medaglia d’oro, ma non giocava a basket dai tempi del liceo. Due numeri prima erano stati i New Orleans Jazz a stupire, prendendo Lusia Harris, in quel periodo un fattore dominante nel campionato universitario femminile con la maglia di Delta State. Segnava 30 punti di media a partita. In finale aveva preso 20 rimbalzi. Non esisteva ancora la WNBA. Sarebbe arrivata nel 1997. Luisa non riuscì mai a giocare una partita. Era incinta. Si dedicò all’insegnamento. 

COSA TROVI SU RIMBALZI 

          La storia del vero Rocky Balboa 

Nella settimana degli Oscar, il decimo episodio di Rimbalzi, il podcast di Slalom realizzato con Chora Media, è dedicato a Rocky di Sylvester Stallone, il primo film ambientato nello sport a vincere la statuetta. Dopo sarebbero venuti Momenti di gloria e Million Dollar Baby.

Chi era Chuck Wepner, il pugile che affrontando Muhammad Ali ispirò la vicenda di Balboa contro Apollo Creed. Su Spotify trovate a questo link la serie completa

Rimbalzi è disponibile su tutte le principali piattaforme. 

 

I commenti all’Oscar per Richard Williams e allo schiaffo di Will Smith

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    Vincenzo Martucci, Supertennis: Molto femmes fatales: curatissime di viso e capelli, guantate nei loro vestiti da festa che esaltano le forme, prodighe di messaggi/slogan, stile “Come eravamo”, glamour ed eteree. Venus e Serena Williams sfilano da super-VIP sul red carpet della serata degli Oscar di Los Angeles per il film “King Richard -Una famiglia vincente”, lontane, lontanissime dal contemporaneo, vicinissimo, super-torneo di Miami, malgrado risultino ancora tenniste agoniste e siano azioniste della squadra locale di football che gioca proprio all’Hard Rock Stadium. Il messaggio è chiaro come le date delle loro ultime apparizioni sul circuito Chissà mai se rivedremo più in una gara ufficiale Venus e Serena! Quest’Oscar a papà sembra quasi l’uscita ideale, vincente, di due atlete che hanno aperto un’epoca col loro gioco potente, più vicino al tennis maschile.

  ◇  Concita De Gregorio, la Repubblica: So come governare l’impulso, lo sento arrivare, ne conosco le origini spesso oscure: nove volte su dieci lo disinnesco, una no. Se fosse stata una di quelle nove volte, e se fossi stata lì al posto suo, avrei aspettato il momento del premio per dire un paio di cose: “Siete tutte bellissime in questa sala ma la più bella di tutte è la donna con cui divido la vita, al comico che ho appena sentito, poveretto, auguro ispirazione per un repertorio migliore”. Quando non va così, quella volta su dieci, fai la cosa che davvero non dovresti. Le elenco: non ti alzi a dare un colpo al tipo, per nessuna ragione al mondo. Non inveisci contro di lui dopo averlo colpito. Non usi pronomi di possesso a proposito della donna che ti siede accanto, perché nessuno è tuo. Non reagisci al posto suo. Non ti scusi dicendo che l’amore fa fare follie: questa, di tutte, è la peggiore perché arriva a freddo. Dunque dovrebbero revocarti il premio? Non so: certo sei diventato in un attimo il peggiore degli esempi, la tua vita per sempre macchiata da quel gesto.

  ◇  Simonetta Sciandivasci, la Stampa: Chi di noi non si sarebbe aspettata che il proprio consorte reagisse in nostra difesa (sì, difesa, per patriarcale e triviale che sia, l’amore è anche questo)? Secondo alcuni, in quel modo, Smith ha tolto a sua moglie la possibilità di farsi valere, e ha fatto il maschio alfa, il bruto, il familista amorale: se assestato dalla signora, il ceffone sarebbe stato resilienza, ma così, da maschio a maschio, non è che un vanesio regolamento di conti, un superbo atto di presenzialismo e pure una grave legittimazione della perdita di controllo, quell’automatismo culturale, naturalmente patriarcale, cui spesso ricorre chi condona la violenza domestica. Ci ingoffisce l’aspettativa, e ingoffisce soprattutto un maschio, perché cosa vogliamo che sia e come vogliamo che si comporti è una costruzione culturale che stiamo tuttora edificando, e chi lo sa se è giusta e legittima la chiave in cui lo stiamo facendo: la criminalizzazione di ogni errore che commette, come un ceffone a un comico per dirgli che lui non ha idea di quanto è dura, per sua moglie, non avere più i capelli

  ◇  Walter Veltroni, Corriere della sera: La scazzottata sul palco degli Oscar a causa di una battuta obiettivamente infelice del presentatore ha reso plasticamente la dimensione della distanza di questa edizione del premio e la realtà. O forse la sua totale immersione in una stagione in cui la perdita del senso del limite e la estrema reattività di ciascuno segnalano la fragilità emotiva collettiva. Ma gli Oscar si sono confermati un mondo a parte. Nel mondo c’è la guerra, milioni di rifugiati e città distrutte e di tutto questo al Dolby Theatre è arrivato ben poco.  

  ◇  Claudio Siniscalchi, Libero: Che la scena abbia poco di spontaneo lo dimostra almeno un indizio. Il fratello ha beccato la cinquina senza reagire. Ma che razza di fratello è? In un campo di pallacanestro, dal campetto di strada all’arena più frequentata, nessuno mai avrebbe accettato l’affronto. Ne sarebbe scaturito un parapiglia, una scazzottata epica in mondovisione. Invece al posto della bistecca sanguinante ci hanno servito il brodino.

  ◇  Alessandro Gnocchi, il Giornale: Hai voglia a portare avanti i modelli di famiglia «alternativa». Quando la teoria cede il passo alla pratica, tu mi tocchi la moglie e io ti mando al tappeto, come ai vecchissimi tempi

  ◇  Michele Serra, la Repubblica: Come tutti, mi interessa parecchio sapere chi ha vinto gli Oscar, anche per decidere quali film vale la pena vedere. Di tutto il contorno, francamente me ne infischio (battuta celebre di un celeberrimo film americano), e considero che il parossistico interesse dedicato dal resto del mondo alla serata degli Oscar, al di fuori e al di là dell’elenco dei vincitori e della consegna delle statuette, sia una manifestazione di imbarazzante provincialismo. Il fatto che “tutti ne parlino” non corrisponde a un imperativo categorico; piuttosto, è l’alibi del conformismo. Si può scegliere perfino di parlare d’altro, ogni tanto. Non è vietato. Quanto a Chris Rock, se non avessi scritto il suo nome nella prima riga, l’avrei già dimenticato

 

voci Paolo Sorrentino

  ➣  Deluso dal verdetto?

«Conoscerete quella bellissima frase di Robert Louis Stevenson: “Il nostro compito al mondo non è riuscire, ma fallire nelle migliori condizioni di spirito». Io fallisco così, no, non sono deluso. Avevo capito già che per il mio film non c’erano speranze, conosco la procedura di entusiasmo intorno a un titolo, Drive My Car è un film bellissimo che meritava di vincere. Va benissimo così, è un gioco. Sono contento di essere arrivato in cinquina, il mio è un piccolo film, ha fatto molto di più di quello che si poteva immaginare. E poi qui in America tutti vivono la cinquina come una vittoria, nessuno si lamenta se poi non si vince. È un traguardo prestigioso, che ha una grande ricaduta dal punto di vista pratico, produttivo».

  ➣  Quanto pesa il «politicamente corretto» sulle scelte di Hollywood?

«È ovvio che il politicamente corretto incida sulla libertà di espressione artistica, è un fardello. Per l’arte è un problema, l’arte migliore nasce da un intento di scorrettezza».

intervista di fulvia caprara, la Stampa

 

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