Le partite di calcio nel cinema di Gabriele Salvatores

E allora corremmo tutti in libreria, tutti a prendere una copia di Elogio della fuga, per sapere cosa dire – e come – nei rapporti dai quali volevamo evadere, o per fare un regalo alle fidanzate degli altri che avremmo voluto veder scappare. Finimmo tra le braccia e nella rete delle parole di Henri Laborit, medico, etologo e biologo francese, perché con un epigrafe al suo film ce lo stava consigliando Gabriele Salvatores, e quelli erano anni nei quali a Gabriele Salvatores – non scherziamo – si obbediva e basta. 

 

Mediterraneo uscì negli ultimi giorni del mese di gennaio del 1991.

In diretta ogni notte sulla CNN, l’esercito degli Stati Uniti d’America con il sostegno delle forze della NATO avevano appena iniziato Desert Storm, la tempesta di bombe sull’Iraq di Saddam Hussein.

Avevamo la guerra nel salotto e un film che veniva a dirci di scappare dalle guerre. 

Nelle interviste di lancio, prima ancora di andare in sala, Salvatores spiegava che la lavorazione era iniziata due anni prima, quando la missione degli americani era imprevedibile. Ma non gli dispiaceva che l’opinione pubblica leggesse a quel punto la sua storia come l’affresco di una diserzione auspicabile, la storia di uno spaesamento e di una nostalgia, di una condizione nuova e felice nata da un iniziale smarrimento di questo manipolo sgangherato che manco sapeva «se i turchi stanno con noi o contro di noi»

 

Al centro della fuga da una guerra che in Mediterraneo era più insensata che orrenda, batteva un pallone come un cuore, nello spazio di due scene, l’oggetto di una perfetta via di scampo. 

Marco Armocida ha scritto sulla rivista Contrasti che le partite sulla spiaggia dei militari diventano ungarettianamente un modo per sentirsi attaccati alla vita: in un contesto generale di distruzione, permettono di provare dei barlumi di normalità. Oltre a ciò, sono una chiara manifestazione di amore verso il proprio paese. Giocare a pallone significa portare con sé un pezzo di casa, ovunque si vada. È un meccanismo inconscio che ha come tentativo il non voler in nessun modo dimenticare la propria patria. Ricordarla, sì, ma nella sua dimensione più divertente e aggregante. Non attraverso le armi e i dissidi, ma con due porte, una palla e immancabili polemiche per rigori non assegnati. Così come gli emigrati cercano in terra straniera qualcuno con cui parlare la propria lingua per poter conservare le proprie radici, così i protagonisti cercano l’occasione per poter giocare a calcio, che da semplice sport si eleva a simbolo di ricordi e di appartenenza ancestrale

 

In una panoramica sulle partite di calcio più significative apparse nei film degli ultimi decenni, Giuseppe Masciale legge per Zeta Vision quella giocata dai personaggi di Salvatores come l’ultimo legame con la propria terra, con la loro vita prima dell’arruolamento quando erano insegnanti, allevatori, maestri di sci e disoccupati. Per questo annulla ogni gerarchia e rende ancor più familiare quell’isola e la sua gente che il mondo in guerra sembra aver dimenticato, un appuntamento senza gradi e mostrine tra protagonisti che come dice il tenente Montini hanno «tutti più o meno quell’età in cui non hai ancora deciso se metter su famiglia o perderti per il mondo».

Masciale trova che esista un parallelismo tra la partita di Mediterraneo e quella di I sogni segreti di Walter Mitty, remake di Sogni Proibiti con la regia di Ben Stiller e Sean Penn nel cast, perché la partita – scrive – è il momento per una riflessione su ciò che si è

Zeta Vision cita pure il calcio surreale di Timbuktu, film del regista mauritano Abderrahmane Sissako, una partita immaginaria, simulata dai ragazzi nel campetto di sabbia di un villaggio, senza palla, simile a quella vista in Meri per sempre di Marco Risi

Un atto nel suo piccolo rivoluzionario perché sottintende la più sediziosa delle idee: con l’immaginazione l’uomo è sempre libero di fuggire.

 

Fuggivano già – Salvatores e il suo fedele gruppo di attori – in Marrakech Express due anni prima, quando per recuperare un tubo nel quale erano nascosti dei soldi, a Giuseppe Cederna veniva in mente di buttarla su una sfida di pallone nel deserto contro gli abitanti del luogo. 

«Tutto a posto, ragazzi. Italia-Marocco. Ce lo giochiamo a calcio. Si arriva a dieci», fa tutto soddisfatto a Diego Abatantuono e Gigio Alberti, per sentirsi invece dire da Fabrizio Bentivoglio: «Ma sei scemo?». Seguono dribbling, contrasti e gol con sottofondo affidato a Francesco De Gregori, al famoso Nino che mise il cuore dentro alle scarpe e corse più veloce del vento

Qui va detta una cosa. E pure con una certa urgenza. 

Presi come siamo sempre stati dai dubbi sulle modalità con cui si giudica un giocatore, se dal coraggio o da come tira un calcio di rigore, se dall’altruismo o dalla fantasia, non ci siamo mai dedicati compiutamente al vero mistero della Leva calcistica del ‘68, a quella tesi secondo cui i giocatori tristi che adesso ridono dentro a un bar, sono innamorati da dieci anni con una donna che non hanno amato mai

In che senso?

Quando De Gregori fa uscire questo pezzo nel disco Titanic, estate del 1982, siamo all’alba dell’egemonia di Francesco Alberoni, il sociologo che ogni lunedì firma una rubrica in prima pagina sul Corriere della sera. Tre anni prima ha pubblicato per Garzanti un libro dal successo enorme, Innamoramento e amore, nel quale ribalta le teorie psicologiche in corso su relazioni, infatuazioni e dintorni, descrivendo invece l’innamoramento come un processo simile per natura a una conversione, che sia religiosa o politica, e dichiarandolo uno stato nascente di un movimento collettivo formato da due sole persone. Quando arriva Nino con le scarpette di gomma dura, De Gregori entra allora con un tackle poetico nella discussione. I suoi uomini innamorati da dieci anni che non hanno amato mai, sono quelli che non hanno mai trasformato in termini alberoniani il loro stato nascente nella condizione borghese e permanente dell’amore – rimanendo così dei rivoluzionari perfetti, cioè incompiuti, senza uno sviluppo successivo – o più prosaicamente vuol dire che, ecco, insomma, non sono mai platonicamente arrivati al Palazzo? 

L’uso delle forme verbali da parte di De Gregori non aiuta. Transitivi, intransitivi e riflessivi sono nebbie. De Gregori è pur sempre quello che mescola le acque dei soggetti quando dice che durante la guerra torneremo a farci fare l’amore dalle infermiere. 

 

Non era marginale, la scena della partita di calcio. Non lo era se nel luglio del 1992, a Porto San Paolo, Sassari, per l’inaugurazione del festival Una notte italiana, prima della proiezione di Mediterraneo, Gigio Alberti, Antonio Catania e Giuseppe Cederna, insieme con Gino e Michele, sfidarono a pallone gli abitanti del luogo. 

Tullio Kezich sul Corriere della sera recensì Mediterraneo scrivendo che il gruppo degli italiani perde ogni connotazione militaresca giocando a calcio con i ragazzini, ballando il sirtaki e assumendo in tutto gli usi e in costumi. Prendiamola come una favola. Parlò di leggerezza del tocco e stile accattivante.

Gian Luigi Rondi sul Tempo aggiunse che quei soldati che preferivano il pallone alla guerra erano una galleria di ritratti umani e sinceri, studiati con calore, incisi con finezza.

Enzo Siciliano parlò di eredità che la commedia all’italiana ha lasciato nel cinema dei registi più giovani o di leva più recente. Salvatores aveva 41 anni. 

Irene Bignardi su Repubblica la giudicò una commedia amarognola che scorre con brillante piacevolezza

Michele Anselmi su l’Unità considerò che la fuga di cui parla il regista milanese non è un atto di viltà di fronte alle strettoie dell’esistenza, è una scelta di protesta, un viaggio dentro se stessi alla scoperta di nuovi valori di vita.

 

Il tifo di Mediterraneo

 

Gabriele Salvatores, il Napoli e l’Inter

«Ho vissuto a Napoli fino a cinque anni, abitavamo in una casa bombardata, il corridoio finiva nel nulla, la parete esterna era crollata. Eravamo in via Solitaria, non ho mai capito se fosse una indicazione buddista, qualcosa legato al karma. Mio padre, avvocato, si è trasferito a Milano, io tifavo Napoli e poi a furia di botte ai primi anni delle elementari mi hanno costretto a scegliere una delle squadre milanesi. Ho scelto l’Inter perché aveva l’azzurro del Napoli nella maglia. Ho un vago ricordo degli anni 50 e 60, l’arrivo a Milano, il freddo. Mi avevano comprato un sacco di cappottini. Il ricordo più forte che ho è di emarginazione, i cartelli con scritto “Non si affitta ai meridionali”, i bar dove non potevano entrare quelli del Sud, le liti con i compagni quando mio padre, che parlava napoletano, mi veniva a prendere a scuola». 

intervista di arianna finos, la Repubblica, 30 luglio 2020

 

Giuseppe Cederna, l’Inter e la Somalia

  «Il calcio l’ho visto giocare ovunque. Basta uno spiazzo e un pallone che non deve per forza di cose essere regolare. A 3.500 metri d’altezza tra i monaci buddisti, vedevo questi ragazzi con le tuniche e i capelli rasati calciare una sfera o presunta tale, Io non potevo farlo, a quell’altezza… mancava l’ossigeno. Ma anche in zona di guerra il calcio lo vedevo giocare. Come mi è accaduto in Somalia. Da bambino con mio papà, Antonio, intellettuale e ambientalista, giocavo a pallone con delle noci. Lui me le lanciava e io provavo a calciarle dopo averle stoppate. Il calcio mi piace molto. Non è solo gol, passaggi o classifiche ma anche un suo perché dietro ogni azione. Il calcio può far star male soprattutto se si ha una passione smisurata per questo sport. Ma fa anche tornare dodicenni e lo dico anche con stupore. Non so perché ma dopo una vittoria dell’Inter, la mattina dopo mi sveglio felice come una Pasqua».

intervista di franco avanzini, il Pubblicista, 5 febbraio 2016

 

Claudio Bisio, il Milan e Zelig

«Milanista fin da bambino, perché mio padre lo era. Tanto per dire, la mia prima volta a San Siro fu un Milan-Estudiantes di una Coppa Intercontinentale, quella dove Combin terminò con la faccia insanguinata causa alcuni scontri molto “maschi” tanto per usare un eufemismo che si usa spesso in questi casi. Ebbi l’onore di seguire quel Milan lì, con i Rivera, i Prati, gli Schnellinger, i Maldini (padre e figlio), i Sormani, quando da bambino si vedono quei giocatori non si può non amare quella squadra. Il campionato lo seguo in tv, ovviamente, ma, causa il mio lavoro, mi sono perso tante belle partite, oppure le ho viste dietro le quinte di un teatro. Zelig prevede prove la domenica e registrazioni il lunedì e martedì, quindi tutti i posticipi domenicali o le partite di Coppa del Martedì, da dieci anni a questa parte me le sono perse o viste di schimbescio tra la presentazione di un comico e l’altro».

intervista a Tuttosport, 23 ottobre 2011

 

Diego Abatantuono, il Milan e l’Atalanta

   ➣  Di recente ha detto che da qui in avanti tiferà Atalanta. Va da sé che non è vero, ma la spinta, a occhio, ha dentro parecchio rimpianto per il passato.

«Era un’ovvia provocazione. All’Atalanta invidio il modello, c’è un presidente riconoscibile, una società, il tifo come una volta. Il Milan? Il Milan è di un fondo internazionale. Ho chiesto in giro: questo fondo ha una bandiera? La posso portare allo stadio?».

 ➣ Magari ce l’hanno.

«Il punto è che il fondo, nella vita, deve fare il fondo. Per cui vengono fuori aberrazioni, perfino tra i tifosi ho sentito dire: ah, meno male, ci hanno escluso dalle coppe così il conto economico a medio termine va a posto… Ma chi, ma cosa, ma quando? Io le coppe le voglio fare. Ma dove siamo?».

 ➣  E quindi nostalgia. Più per Gullit o per Rivera?

«Gullit e quel Milan, quello vissuto a pieni polmoni, una cosa oltre il pazzesco. Il ricordo dei tempi di Rivera inizia a offuscarsi, forse anche per colpa di quell’altro Milan. Cioè, ricordo che ero felice di Rivera, ma cosa c’era davvero in quella felicità non lo ricordo tanto bene».

intervista di antonio dipollina, la Repubblica Milano, 17 agosto 2020

 

 

«Oh, ragazzi: quando torniamo, rimettiamo insieme la squadra eh?».

È così che finisce la partita nel deserto del Marocco in Marrakech Express.

La partita di Mediterraneo, sull’isoletta di Kastellorizo, al termine della trilogia della fuga, introduce simbolicamente e in modo del tutto inconsapevole un altro futuro. L’aviatore che atterra dietro la porta di Abatantuono in attesa di un calcio di rigore, arriva nel film per annunciare l’8 settembre, l’armistizio, gli alleati, il cambio di fronte, e per gli otto soldati sull’isola l’addio al paradiso. L’addio anche a quel calcio giocato sull’isola a quel modo. «Ci sono grossi ideali in gioco: si possono fare un sacco di soldi» si dicono nel film alla fine delle guerra, pensando a cosa sarà il rinnovamento, prima di scoprire cosa sarà che ti fa comprare di tutto, anche se è di niente che hai bisogno. 

Nel mondo reale sta per farne parecchi, di soldi, tutto il calcio. Italiano ed europeo.

Il 1991 di Mediterraneo è l’anno dello scudetto alla Sampdoria, l’ultimo titolo eretico del calcio italiano.

I giornali stanno raccontando che il calcio presto cambierà. Con la ricchezza promessa dai diritti tv. Non è nemmeno troppo chiaro dagli articoli di cosa si tratti, ma vedrai, vedrai, vedrai che cambierà. Verrà il mondo nuovo, nel 1992.

L’anno dopo la partita di pallone sulla spiaggia di Kastellorizo.

Dove il sergente Lorusso, il tenente Montini e Antonio Farina sono rimasti a invecchiare scappando, scappando da tutto, perché «non ci hanno lasciato cambiare niente. Allora gli ho detto: – avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice, così gli ho detto, e sono tornato qui». 

Sull’isola di Vassilissa

 

Quando il tempo diventa davvero duro, il veliero ha una sola possibilità: la fuga. Fuggire il tempo permette di salvare barca ed equipaggio, ma anche, forse, di scoprire terre nuove, lontano dalle rotte falsamente sicure delle crociere e dei mercantili

Henri Laborit, Elogio della fuga

 

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Orson Welles diceva: il montaggio è tutto.

A cura di Angelo Carotenuto.

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