Lettera al barone De Coubertin dimenticato dalla Francia

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Barone, diciamoci la verità. Il più grande sconfitto nella storia dei Giochi sei tu, l’uomo che li ha re-inventati. Tu che hai pensato di recuperare i riti e i miti di Olimpia e che hai lasciato detto di seppellire là il tuo cuore. Guardati attorno, Pierre de Coubertin. Guarda che cosa sta dicendo e sta facendo la tua Francia, ora che siamo a quattro mesi dalla cerimonia d’apertura di un’edizione che torna a Parigi dopo cent’anni. Guardati attorno e renditene conto: tu non ci sei. Sei un’ombra, sei un fantasma, sei una questione rimossa.

Poteva essere l’occasione per celebrarti, in fondo sei il papà di questa creatura che ogni quattro anni ci fa scoprire il canottaggio e la scherma, ci fa appassionare a un Harai Goshi oppure a uno Yurchenko. E invece la tua Francia ti ignora. Volevi passare alla storia come un visionario di fine Ottocento, la stai imbarazzando come misogino e razzista per noi del Ventiquattro. 

 

Barone, diciamoci la verità: hai perso. Lo ha scritto con chiarezza definitiva Le Monde, un giornale, non puoi conoscerlo, è nato sette anni dopo la tua morte, il generale De Gaulle fu uno dei promotori. Lo stesso generale che negli anni Sessanta provò a recuperare e rilanciare la memoria della tua opera, perché nel frattempo eri già stato dimenticato. Il generale era stanco di vedere la Francia solo partecipare, decise di fare delle Olimpiadi una causa nazionale e di te un campione del genio francese. Improvvido. Arrivò presto il Sessantotto e ti scaraventarono di nuovo giù dal piedistallo fresco fresco di produzione. Jean-Marie Brohm, sociologò, definì la tua idea bufala olimpicae insieme con l’acqua sporca finisti gettato via pure tu, non più bambino. In Le Mythe olympique, Coubertin et la religion athlétique un capitolo di centocinquanta pagine – intitolato “Le idee reazionarie del barone Pierre de Coubertin” – si legge che ti interessava solo una pseudo cultura muscolare. Lo hanno ristampato tre anni fa. Casomai lo avessimo smarrito in un trasloco. 

 

PAROLE, OPERE E OMISSIONI

Hai perso barone e potresti pure disinteressartene. In fondo sei diventato celebre per quella cosa sull’importanza di partecipare. È la tua frase che ci tramandiamo. Sei nella storia. Se solo fosse vera. Nemmeno, maledizione, nemmeno è tua. Pare che tu l’abbia rubacchiata a un arcivescovo della Pennsylvania, un certo Ethelbert Talbot, scavandola nell’oscurità e riproponendola sotto la forma dell’elogio della competizione, «l’importante nella vita non è il trionfo ma la lotta, essersi battuti bene». La frase finì sui cartelloni dei Giochi del Trentasei e da allora l’abbiamo collegata a te. 

Ecco. Berlino. Parliamone. Hai disegnato i cinque cerchi multicolori incatenati l’uno con l’altro e poi li hai accompagnati tra le braccia di Hitler. È inutile che tu ti difenda. I Giochi furuno assegnati nel Trentuno, non eri in carica, d’accordo, ma eri il grande patriarca dello sport e quando il regime nazista prese il potere difendesti ciecamente la decisione, denunciasti le minacce di boicottaggio. Rifiutasti l’invito della cancelleria tedesca nell’anno in cui inventarono la ritualità della fiamma, il fuoco, la purificazione, le vestali, tutto sotto la cinepresa celebrativa di Leni Riefenstahl, non eri là ma ma non è bastato a scagionarti. Non hai smesso di sostenere l’organizzazione, prima, durante e cosa ancor più grave dopo. Credevi davvero che da quei Giochi l’armonia umana sarebbe uscita rafforzata. Dimenticasti di proposito che i nazisti avevano cancellato i tuoi appelli alla pace dal messaggio radiofonico prima dell’apertura. Eri stanco, esausto, ammalato, ti eri ritirato in Svizzera, la Francia stava cominciando a dimenticarti. 

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Le Monde Magazine scrive che Pierre de Coubertin è un mucchio di polvere sotto il tappeto. Volevano parlarne con David Lappartient, il gran capo del comitato organizzatore [Cojo]. Ha risposto meglio di no, meglio non tornare sul barone. Una statua si trova nell’atrio della sede di Parigi, 1 metro e 67, cinque centimetri più alta del naturale, ma digitando de Coubertin nel motore di ricerca del sito del Cojo, appare una scritta che non si sa chi mortifichi di più: “Nessun risultato disponibile”

Gli omaggi sono pochi e nascosti. Un concerto alla Sorbona, uno spettacolo di Stéphane Bern su France 3, una conferenza al municipio natale del 7° arrondissement, una sosta veloce della fiamma olimpica [il 5 luglio] al castello di Mirville, proprietà della famiglia in Normandia. Ma gli ultimi due discendenti ancora in vita, candidati a portar la fiaccola attraverso il sito della Coca-Cola, non sono stati inseriti tra gli undicimila scelti. 

Che contrasto con l’estero, scrive Le Monde, dove il barone è risparmiato dalle polemiche, resta il padre dei Giochi e ha statue ovunque, in Atlanta, a Lillehammer, a Baden-Baden, a Tokyo, ovviamente in Atene. Sono una quarantina i luoghi a nome suo in tutto il pianeta. Il manoscritto della rinascita dei Giochi del 1892 è il cuore del museo olimpico di Losanna. Lo comprò cinque anni fa a un’asta di New York per 8 milioni di euro l’oligarca russo di origine uzbeka Ališer Usmanov, presidente e finanziatore della federazione internazionale di scherma. Lo comprò e lo donò alla Svizzera. 

 

Siamo lontani da questo culto in Francia ha scritto Le Monde, il culto per un barone che era monarchico, diventò un repubblicano moderato, fu vicino al mecenatismo cattolico, restò prudente durante l’affare Dreyfus. Troppo conservatore per la gauche, troppo universalista e pacifista per l’estrema destra di Charles Maurras, fondatore di Action Française, più incline a entusiasmarsi per gli atleti che andavano a morire nelle trincee. 

Barone, fosti accusato di diserzione. La Francia non lo dimentica. Le Olimpiadi militari del 1919 organizzate a Parigi dai paesi vincitori riunirono novantamila spettatori, millecinquecento atleti, capi di stato, teste coronate. È l’Olimpiade ombra, ufficialmente non è mai esistita, serviva a celebrare il ritorno alla vita, ma non ti invitarono. Ottenesti per Parigi l’edizione del 1924, il tuo ultimo grande atto, quello che speravi sarebbe diventato il primo passo verso il ritorno alla presidenza del CIO. Invece ti hanno emarginato. Quando sei morto nel 1937 all’età di 74 anni, pochi giornali diedero la notizia, ma anche questo non puoi sapere. 

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“Il barone resta un tabù” ha scritto Daniel Bermond nella biografia Pierre de Coubertin (Perrin, 2008). È rimasta a battersi per te quasi da sola Diane de Navacelle de Coubertin, la tua pronipote, lei stessa una sportiva. Quando i giornalisti le chiedono di te, lei ti chiama semplicemente Pierre. Vi separano quattro generazioni, se lo può permettere. Ripete a tutti che «le frasi da lui pronunciate ci sembrano oggi scioccanti. Ma a quei tempi, le donne indossavano ancora i corsetti e mostrare le gambe era inappropriato. Vi ricordo che abbiamo avuto diritto di voto solo nel 1944. Allora perché fargli portare tutto il peso del suo tempo? A chi lo critica voglio chiedere: – Cosa pensavano all’epoca i vostri antenati?».  

Ma è sola, barone, troppo sola. Lascia stare, arrenditi. Ripassa fra cent’anni, chi lo sa, magari sarai tornato di moda. Sempre che ci sia ancora qualcuno sulla terra, mentre il tuo cuore riposa per sempre a Olimpia. Dove è giusto che stia. Forse è stata la sola, chi siamo noi per dirlo, ma che meravigliosa idea che ti è venuta. 

tip |   Le Monde Magazine

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