Il mistero dello sport americano. Nessun ragazzo di Washington vuol giocare a Washington [Avete visto la schiacciata di Anthony Edwards?]

Quando due anni fa chiesero a James Wood di Rockville cosa provasse all’idea di essere ceduto ai Nationals, la definì una benedizione. Washington è la sua città. Tornava a casa. Giocava nel posto giusto. Ma le cose non sono andate come nei sogni, succede, quasi sempre. Fausto Coppi una volta disse a Mario Fossati che i desideri si realizzano sempre tutti, ma tardi e male. Prendiamo LeBron James. Ha trascorso due periodi a Cleveland, una trentina di miglia dalla sua città natale di Akron. Il primo quando i Cavaliers lo scelsero dal liceo come prima scelta assoluta nel 2003. Era il Predestinato con la P maiuscola. Portò la squadra alla finale NBA. Il secondo periodo fu quello in cui tornò dopo una parentesi a Miami, lo avevano chiamato traditore, lo avevano fischiato. Dovettero passare insieme da quel trauma – lui e la città – per arrivare all’anello.

Anche Derrick Rose venne scelto con il numero 1 dai Chicago Bulls, la squadra della sua città natale. Anche lui pareva un predestinato con la P maiuscola, il folletto in grado di riportare l’anello in squadra dopo Michael Jordan. Dopo essere stato il debuttante dell’anno nel 2009 e aver guidato i Bulls a una stagione da 62 vittorie nella sua terza stagione — a 22 anni era diventato il giocatore più giovane nella storia della NBA a vincere il premio MVP — una sera si accasciò in campo tenendosi un ginocchio tra le mani e da allora non si è mai più ripreso completamente. Salutò Chicago nel 2016 e ha smesso di essere una star.

 

Quelli che giocano a casa certe volte portano addosso un pregiudizio, più spesso un peso. Quasi sempre. Non succede solo nella pallacanestro, come sanno Chase Young e DeMatha High, oppure Dwayne Haskins, un’altra scelta di Washington al primo turno. Washington peraltro è la città che ha la relazione più tormentata con questo tema. 

Ne ha parlato sul Post Kevin Blackistone chiedendosi per quale motivo l’aria della Casa Bianca faccia male ai campioni di casa. 

Non abbiamo mai portato una stella della nostra città in una delle nostre squadre professionistiche. Nonostante tutti i grandi talenti del basket prodotti a Washington e dintorni, quasi nessuno dei membri della Hall of Fame ha giocato qui. Non Elgin Baylor. Non Adrian Dantley. E non Kevin Durant, futuro candidato alla Hall of Fame, che rifiutò un accordo con i Wizards spiega.

In effetti Durant stesso confessò al Post nel 2017 che non aveva nessuna intenzione di giocare a casa. «Mi sentivo più a mio agio con l’idea di costruirmi una seconda parte della mia vita in una parte diversa del paese, cercando di fare cose diverse. Sentivo che avevo fatto tutto quel che dovevo fare nei dintorni del Maryland e della Virginia. Era il momento di fare qualcosa di nuovo. Non volevo tornare. Era una cosa mia, interiore. Non aveva niente a che fare con il basket, con i tifosi, con la città».  

La cosa riguarda pure le donne. Le Washington Mystics nel 2022 hanno utilizzato la terza scelta nel draft WNBA per selezionare Shakira Austin e nella sua seconda stagione ha patito un infortunio a un’anca che l’ha mandata sotto i ferri.

Giocare in casa – ha scritto il Washington Post – mette molta pressione. Un tipo di pressione diverso da quello che quasi ogni giocatore deve affrontare ovunque.

Quando LeBron parla della sua esperienza a Cleveland, racconta che la cosa più difficile è concentrarsi sul lavoro e mettere da parte tutto il resto, la famiglia, gli amici di infanzia che ti chiedono i biglietti, di uscire per una birra, vedersi come quando eri bambino.  

Chris Paul ha fatto un giro nelle scuole per presentare il suo libro Sixty-One: Life Lessons from Papa, Den and Off the Court e ha raccontato di vivere bene in solitudine in un condominio nella zona di San Francisco. La sua famiglia è rimasta a Los Angeles, dove si erano trasferiti durante gli anni dei Clippers. Dice che sta bene così, senza nessuna tentazione di giocare per gli Charlotte Hornets, nessuna tentazione di tornare vicino alla sua città natale di Winston-Salem, Carolina del Nord. 

Considerata la sfortuna che capita a così tante superstar che giocano a casa – dice il Washington Post – immagino che sia meglio per lui. Cercare di essere l’idolo della propria città non è qualcosa che auguro alle stelle. Ma egoisticamente almeno uno a Washington lo vorrei. La speranza adesso è riposta in James Woods e Caleb Williams dei Nationals in NFL. Incrociamo le dita dice il giornale che fece cadere Nixon. E incrociamole, va’. 

 

CHE COSA È SUCCESSO NELLA NOTTE

 

 

In America non si sono ancora ripresi del tutto dalla visione della schiacciata dell’altra notte di Anthony Edwards. Si stanno divedendo sulla categoria alla quale iscriverla [Dunk o Thrunk dell’anno?], a seconda che il gesto sia avvenuto con la mano così o colà. Ciò che Anthony Edwards ha fatto l’altra sera – dice la newsletter The Bounce di The Athletic – può essere descritto solo con imprecazioni e parole che farebbero arrossire George Carlin. La sua schiacciata ha tenuto in ostaggio Internet.

 

 

Non devono essersi ripresi neppure i T’Wolves che l’hanno segnata. Sono stati sopraffatti nella notte da un Nikola Jokic che prosegue imperterrito nella sua stagione iperbolica. Contro Minnesota ha messo una doppia-doppia da 35 punti (14/22 dal campo e 3/4 da tre punti) e 16 rimbalzi. Per i Denver Nuggets fanno 12 vittorie nelle ultime 14 partite. Con questa ultima hanno scavalcato i T’Wolves al secondo posto della classifica a Ovest. 

 

 

Se invece da troppo tempo vi mancava una giocata di Luka Doncic alla Luka Doncic, ce n’è stata una nella notte da scolpirsi bene nella testa. Un passaggio per un alley-hoop dalla propria metà del campo. Ma si fa prima a guardarla. 

 

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