Il mondo che passava da Minà

Arturo, un bravo giornalista si vede nelle interviste

da “La mafia uccide solo d’estate”

 

  ADDII

 

È morto Gianni Minà, giornalista, scrittore, conduttore e autore televisivo. Aveva 84 anni. La notizia è stata data dalla sua pagina Facebook con un comunicato che riferisce di una breve malattia cardiaca: Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi amici più cari. Ha seguito da inviato otto Mondiali di calcio e sette Olimpiadi. 

Valerio Piccioni sulla Gazzetta dello sport si domanda da dove cominciare, per ricordarlo. 

Dalla straordinaria gag con Massimo Troisi che incorona la sua fantastica “agendina”? O da quella cena incredibile dove in un ristorante di Trastevere mette insieme allo stesso tavolo Muhammad Ali, Sergio Leone, Robert De Niro e Gabriel Garcia Marquez? O, ancora, da quando Fidel Castro, dopo quindici ore di intervista, dalle due del pomeriggio alle 5 del mattino, gli dice: «Non so se si tratti di un record del mondo per un colloquio con un giornalista straniero, ma di certo è un primato caraibico!». O al momento in cui ebbe l’idea di far incontrare a Las Vegas proprio Ali e Pietro Mennea? Fu l’attimo in cui il fresco primatista del mondo dei 200 metri, di fronte a un certo scetticismo del mito dei pesi massimi che si aspettava un atleta nero, tirò fuori una risposta che fece storia: «Io sono nero dentro». E che dire del famoso incontro con Gianni Brera a Trieste in cui Nereo Rocco raccontò il suo calcio? La sua biografia è davvero enciclopedica. La sua capacità di creare confidenza e fiducia abbattendo ogni diffidenza anche con personaggi molto diversi fra loro, è diventata proverbiale.

 

IL CORAGGIO E IL LINGUAGGIO | Piccioni provvede poi a smontare una leggenda, questa idea dell’amico di tutti, o comunque di molti e di molte grandi figure, non solo è riduttiva, è proprio falsa. Minà – scrive – è stato un giornalista coraggioso che sapeva fare anche domande “sbagliate” e molto poco politically correct. Fino al rischioso, al temerario, al pericoloso. Successe una volta in Argentina in una conferenza stampa dell’ammiraglio Carlos Alberto Lacoste nel 1977, l’anno prima dei famosi Mondiali della dittatura, quel trionfo con il pallone nell’epoca feroce dei desaparecidos.

Minà, inviato della Rai, chiese: «Ma è vero che qui scompare la gente?». In platea ci fu il gelo. Il gerarca disse solo: «Lei è male informato». Raccontandola, tanti anni dopo, Minà disse di essere stato superficiale. Fatto sta che poco dopo, Giangiacomo Foà, all’epoca corrispondente del Corriere della Sera, lo raggiunse in albergo e gli disse: «Gianni, devi andare via. Ora, subito». E così fu

Un altro aspetto interessante è sottolineato stamattina da Piccioni, quando scrive che i suoi dialoghi con grandi personaggi hanno rischiato di occultare la sua capacità di trovare un linguaggio nuovo, molto adatto al pubblico giovanile, con questo eclettismo senza confini capace di invadere e di mischiare con disinvoltura i mondi dello sport, del cinema, della musica o della politica

Giovanni Tosco su Tuttosport spiega che le sue conversazioni erano modellate sullo stile della rivista francese “Cahiers du Cinéma”: voleva tirare fuori l’anima del proprio interlocutore, non cercava lo scoop con aggressività. Non ne aveva bisogno, d’altra parte. Altri tempi, altre persone, altro giornalismo

 

L’ARCHIVIO | Giuseppe Smorto su Repubblica ricorda che Gianni Minà ha passato gli ultimi tempi a raccontare la sua vita su Instagram, e che vita. Non aveva voglia di mostrarsi, non dava interviste, aveva bisogno dei suoi tempi per rispondere, e ormai i tempi delle tv e dei giornali sono diventati feroci. Ha detto tante volte no, però si andava da lui con devozione, aspettando un racconto sulle sue stelle ribelli — Muhammad Ali, Pietro Mennea, Maradona.

Proprio Diego gli aveva lasciato un messaggio sulla segreteria poco prima di andarsene, e Gianni ne soffriva ancora. Stava anche su Facebook perché non voleva censure né misure, stava preparando un libro sulla boxe, aveva portato ai Festival il film della sua vita, ma a Bari c’era andata solo sua moglie Loredana, regista. Non si sentiva più nemmeno uomo Rai e aveva lanciato un crowdfunding per riprendersi l’archivio delle immagini. Rideva di gusto della gag di Fiorello “Eravamo io…” perché era la pura verità. Casa sua era un misto fra Cinecittà e le Olimpiadi, fra Sanremo e un festival di musica latinoamericana

 

IL MAESTRO | Antonio Barillà su La Stampa dice che ci sono cene che raccontano bene Minà. Ritagliate in fondo a giornate lunghissime in locali della periferia torinese, a tavola non vip ma ragazzi intimiditi e orgogliosi, apprendisti in quel Tuttosport che lui, il Direttore, voleva accanto quando il giornale era chiuso. E non parlava mai di se stesso, vizio e vezzo di tanti grandi e pure di chi grande solo si sente, ma della bellezza del mestiere, della fortuna di raccontare, del privilegio d’essere testimoni nel mondo. Ascoltava, soprattutto. Confidenze e sogni. Li tirava fuori con facilità perché riusciva a sconfiggere la soggezione. Nel suo Blitz, innovativo programma televisivo, intervennero Federico Fellini, Sergio Leone, Ali e De Niro, Jane Fonda. Intervistò per sedici ore Fidel Castro, al quale fu legato da uno speciale rapporto, e raccontò Diego Armando Maradona intimo come nessuno, cogliendone fragilità e tenerezze sconosciute al grande pubblico. Anche del Pibe, era amico. E di Troisi. Nulla di strano perché era socievole e affabile, incisivo però mai aggressivo, per questo con lui diventava facile aprirsi, mettere a nudo stati d’animo, svelare paure e confessare speranze. Ha fatto mille cose, ma nelle interviste era davvero un fuoriclasse: soprattutto in quelle televisive, incalzanti nella gentilezza, intriganti nella sobrietà, curiose nel rispetto

 

L’UOMO |  Tony Damascelli sul Giornale dice che Minà come Maurizio Costanzo aveva voglia di narrare, ascoltando. Gianni come Maurizio sapeva accomodarsi di fianco a chiunque, illustre o sconosciuto e regalarci pietre verdi della scoperta. Gianni ha girato il mondo con ritmi mai frenetici, sapeva cogliere il gusto e il senso della vita altrui, spesso smarrendo il proprio con orari improbabili. Prigioniero di un sogno, essere il portavoce e portacroce del Sudamerica, quella fetta di terra e di popolo che unido jamàs serà vencido. Diceva che la sua bizzarria veniva dallo zio Peppino che era stato cosacco del Don della Russia zarista, prima della rivoluzione di ottobre. Le sue origini erano siciliane, Castelbuono, provincia di Palermo, il terremoto di Messina gli portò via nonno Giovanni che era impiegato delle ferrovie dello stato poi emigrato ad Asti dove conobbe Cesira; un altro nonno Enzo, se ne andò con il bombardamento del ‘43 che salvò invece e nonna Nella

Damascelli passa poi ai ricordi professionali: Lavorare con Gianni fu un privilegio e, insieme, un’avventura, gli appuntamenti erano ipotesi, inutile inquietarsi, alla fine bastava un sorriso per dimenticare l’attesa eterna e l’impazienza.  Il suo tramonto è stato malinconico e non soltanto o certamente per la malattia. Ignorato dalla Rai e dalle altre emittenti, ai margini di una televisione frettolosa e superficiale, scomodo infine, Gianni non aveva più diritto di cittadinanza nemmeno nelle trasmissioni riservate all’epoca vintage, la sua, quella di cui è pieno l’archivio televisivo. Oggi, come accade puntualmente, si radunano gli amici smarriti, si esibiscono pensieri e parole finiti nel dimenticatoio. In fondo lo aveva previsto in uno dei suoi favolosi racconti, quando incontrò e intervistò Gabriel Garcia Márquez. Gianni ha vissuto bene e ha concluso la sua esistenza dopo ottantaquattro anni, in solitudine.

 

| Aldo Grasso sul Corriere della sera scrive: Invidiandola, in molti hanno scherzato sulla mitica agenda di Minà, dove in ordine alfabetico c’era una parata di uomini importanti, di sportivi, di musicisti, di tutti quelli che il giornalista torinese aveva conosciuto e intervistato.  Nella sua lunga carriera televisiva Minà si è guadagnato la fama di nostalgico degli Anni ’60, di cui ha proposto in varie occasioni appassionate rievocazioni. Non seguiva mai un copione e se c’era qualche intoppo se la cavava sempre con la frase tormentone: «questo è il bello della diretta»

| Cristiano Gatti sul Corriere dello sport-stadio racconta: Se dovessimo un giorno dire chi in qualche modo, in un modo comunque originale e personale, ha raccolto l’eredità di Sergio Zavoli, facilmente potremmo fare il nome di Gianni Minà. Per dire che la televisione delle persone e dei personaggi, cercati e pescati con la rete a strascico dell’umanità e del sentimento, ha sempre trovato nel baffuto pacioccone col difetto della esse, espressa sempre in effe, il cane da trifola instancabile e appassionato.   Qualcosa di simile non c’è più. C’è qualche patetico replicante che riversa retorica a gettone, ma è pessima imitazione. Quel giornalismo, quella televisione, quell’intervista alla Gianni Minà se ne vanno con Gianni Minà. E poi scorrono solo titoli di coda, senza possibilità di replica

 

 

Come Minà raccontò sé stesso

di marco ciriello, Il Mattino, 16 giugno 2020

 

Gianni Minà è la scatola nera di un mondo felice che non c’è più: tutto quello che abbiamo amato, che lui ha cercato, raccontato e connesso con l’Italia. Per questo ora soffre a ricordare, soffre a darci il backstage di quegli anni, e lo fa con delle cartoline da quel tempo, piccoli frammenti di una enorme grandezza. Dentro queste cartoline che sono i capitoli del suo nuovo libro, Storia di un boxeur latino (minimum fax), ci siamo noi, dispersi tra le righe, a ricordarci di quando Minà portava in tivù scrittori, attori, registi, musicisti, chiunque avesse qualcosa di davvero interessante da dire e lo dicesse bene; erano un altro mondo e un’altra Italia, quella di oggi soffre a connettersi, è pigra e poco interessata agli altri, e i Minà vengono stroncati sul nascere. Per questo il suo libro di memorie diventa un juke-box per storie indimenticabili, momenti di bellezza assoluta, non solo dall’America Latina, ma da tutto il mondo. Minà ricorda e noi con lui, ci racconta la sua famiglia inseguita dai terremoti, i nonni e i genitori, il fascismo e prima Garibaldi e i Mille, pezzi della sua biografia, del suo carattere e delle sue passioni, senza le quali molti di noi non sarebbero stati spinti a saltare su un aereo e a replicare – in piccolo, per carità – quelle storie. 

Si capisce da che parte sta e ci rimane fino ad oggi, Minà, quando ci racconta la sua gioventù sportiva e le nuotate con Giovanni Pische – eroe di guerra rimasto sulla sedia a rotelle dopo che il suo aereo era stato abbattuto dagli inglesi a Pantelleria – che si tuffava, con le gambe legate con una camera d’aria, e insegnava a nuotare e vivere, a respirare e a essere liberi, un Ettore d’acqua. Gli altri maestri sono due napoletani: Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson, con un terzo che si aggiunse dopo, romagnolo, Sergio Zavoli, da loro prenderà il meglio: da Ghirelli la grazia nell’analizzare e muoversi tra potere e contropotere, da Barendson la capacità di montare e connettere e da Zavoli la facoltà di parlare a tutti, infine va aggiunta la curiosità e l’ostinazione che si portava da casa. Il resto è storia: della tivù e del giornalismo.

È stato un enzima che connetteva vite, Gabriel Garcia Marquez per farsi intervistare vuole conoscere Sandro Pertini? E che problema c’è – come sottolineò Massimo Troisi in uno dei momenti più belli della storia della tivù italiana –: agendina, lettera P, telefonata. Il libro è uguale, scorre la storia: i Beatles stretti nella sua Seicento, o Fidel Castro in una intervista divenuta esempio, e citata da Tarantino e Oliver Stone. Oppure il Messico e i suoi muralisti con David Alfaro Siqueiros che fa una eccezione e gli fa un ritratto su carta – ora divenuto la copertina del libro – correggendogli i baffi mentre svela l’assassino di Trotzkij. 

E poi c’è il Brasile, i suoi cantautori, il legame tra i due paesi, in pochi sanno dell’importanza per il teatro e cinema brasiliano di Adolfo Celi, con l’oceano che sembra l’acqua di una piscina che fa da sfondo ad un’unica festa protratta negli anni con Ungaretti che va all’università di San Paolo a insegnare e Vinícius De Moraes che viene a Roma per fuggire dalla dittatura. Ci sono tante cene e moltissimi ristoranti e numerose partite di pallone – memorabili quelle sul campo di Gianni Morandi –, perché Minà ha fatto scorta di quella convivialità che portava Tom Jobim a scendere di casa e mangiare al ristorante, portandosi i contorni da casa, solo per incontrare la gente, e a condurlo a vedere questo spettacolo d’arte varia è Chico Buarque, il Dylan di Brasile, che poi a sua volta improvvisa una partita di calcio per strada a Parigi con gli africani. Ed è attraverso il calcio che Minà regala a noi, all’Argentina e a se stesso, una immortalità leggera, quella dei gesti coraggiosi fatti in incoscienza, quando si alza e chiede all’ammiraglio Lacoste dei desaparecidos, mosso da una frase di Osvaldo Soriano: «È sempre meglio sbagliarsi con le dittature, che avere ragione tacendo». È un libro pieno di vita, una vita allegra, di amore per gli altri, quasi un vangelo laico con storie che poi sono divenute le pale degli altari della nostra memoria. Minà c’ha segnato, e a sfogliare questo suo album dei ricordi, che potremmo continuare per ore, viene da pensare che meritava di più: dalla Rai e dall’Italia.

 

Testimonianze

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voci Gian Paolo Ormezzano

«Gianni era tutto, il più bravo, il più onesto, il più pulito. Non so nemmeno dire che cosa provo ora e cosa è più importante che io dica di questo uomo meraviglioso».

 ➣  Che cosa vi divideva?

«Mennea. Lui era pazzo di Pietro Mennea, io di Livio Berruti. E all’inizio della sua carriera Mennea era visto come l’antagonista di Berruti. Due passioni inconciliabili».

 ➣  Il mito di Minà che conosce tutti i più famosi e passa il tempo con loro. Era davvero così?

«Certo che era così. Una sera mi chiama e mi dice: senti, vieni a Roma che domani sera siamo a cena con Cassius Clay, Robert De Niro e Sergio Leone. E gli rispondo: eh certo, e io invece sono a cena con il Papa. Diavolo, era tutto vero».

 ➣  Chi era il suo preferito tra tutti i nomi dello spettacolo che aveva intorno?

«Senza dubbio Massimo Troisi. Per lui aveva un amore particolare. Poi era molto divertito quando Fabio Fazio lo imitava, si divertiva davvero molto».

 ➣  Aveva un rapporto stretto con i figli del Che.

«Sì, tanto che rischiarono di fargli guadagnare qualche soldo quando gli cedettero i diritti sui racconti del padre. Ma non so se Gianni sia riuscito a fare soldi nemmeno con quelli. Gianni era troppo pulito, non pensava al denaro, non ha mai voluto rincorrere i soldi. Ha avuto un milione di occasioni di farne di facili, con i suoi racconti, magari scrivendo qualche canzonetta per raccattare qualche diritto. Ma non era fatto così, andava dritto per la sua strada e la sua strada non prevedeva i soldi. Credo sia morto povero». 

«Il Toro era l’unica cosa che gli facesse perdere la testa e l’imparzialità nello sport. Per il Toro sbiellava proprio. Qualche anno fa venne a Torino con le sue bambine per fare una specie di tour della memoria nei posti in cui era cresciuto, anche a scuola, al Sociale. Portò le figlie a vedere il Toro e vincemmo su un rigore inesistente: noi ridevamo molto, le bimbe erano delusissime». – intervista di alberto infelise, La Stampa 

 

parole Renzo Arbore

 ➣  In cosa è stato un innovatore?

«Ha sperimentato. Col suo giornalismo ha saputo mescolare i generi, lo sport con l’impegno, il costume con il cinema, la musica con la politica . Era una grande felicità lavorare con lui. Poi aveva questa capacità di mettere a suo agio le persone. Basta vedere le puntate di Blitz . C’erano ospiti come Massimo Troisi, Monica Vitti, Vittorio Gassman, Cassius Clay, Nino Benvenuti».

 ➣  Il segreto? 

«Aveva un tratto, una gentilezza naturale. Sapevano di potersi fidare e Gianni rispettava l’ospite, sapeva tutto della persona che aveva davanti. E poi aveva un sorriso che metteva tutti a suo agio». 

 ➣  Diceva prima che è stato una colonna della Rai. 

«Certo, è un simbolo, un protagonista della buona televisione. La nostra generazione è rimasta sempre fedele all’azienda. Ultimamente lo seguivo su Facebook e mi faceva tanto piacere leggere gli attestati di stima per il suo giornalismo, c’erano tanti appassionati».

 ➣  Oggi come vorrebbe che fosse ricordato? 

«Vorrei che la Rai tirasse fuori le cose più belle del suo repertorio per rendergli omaggio, sono servizi e interviste in cui viene fuori tutta la voglia di conoscere e di far conoscere, la sua intelligenza». – intervista di silvia fumarola, Repubblica

 

I suoi campioni

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    Pietro Mennea

Pietro, stanco, sfiduciato, una sera a Roma alla pizzeria La Fiorentina, nel rione Prati, aveva confidato a me e a Daniele Montezemolo, fratello di Luca, che allora era il presidente della Sisport, la società della Fiat per cui correva Mennea, che lui allo stadio universitario di Città del Messico non ci sarebbe andato più perché vincere contro tutti era una sfida troppo grande anche per lui. Nella vita ci sono delle cose che capitano e tu non sai perché succedano. «Aspettate qui prima di ordinare le pizze», avevo detto loro, «devo fare una cosa che mi è sfuggita di testa». Li avevo lasciati interdetti, seduti nei tavolini esterni del locale, e con la mia 124 Sport Coupé ero corso al Grand Hotel dove sapevo dormiva Luca di Montezemolo. Al portiere, sorpreso, avevo quasi gridato che avevo bisogno urgente di parlare con l’avvocato Montezemolo. Ero sicuro che fosse un tentativo inutile, ma mi sentivo obbligato a farlo. Me lo passò al telefono e tutto d’un fiato, in trenta secondi, lo misi a conoscenza della volontà di Mennea: la società sportiva di cui lui era presidente non avrebbe mai avuto la possibilità di avere un atleta primatista mondiale nella corsa. Montezemolo, che solitamente è un tipo che ama gli scherzi, non so perché, forse per il tono alterato della mia voce, mi credette. Dopo pochi minuti era nella hall smarrito e preoccupato. Ritornammo di corsa alla pizzeria. E Montezemolo ebbe la conferma che il mio non era stato affatto uno scherzo. Discutemmo fino alle quattro del mattino. Il padrone della pizzeria, 157 Andreotti, alle tre aveva tirato giù la saracinesca, mi aveva dato le chiavi del locale e mi aveva detto: «Minà, poi le nascondi qui nel vaso». Aveva ascoltato e anche lui aveva capito che era in gioco il prestigio del nostro paese. Pietro, supportato dalle rassicurazioni di Luca di Montezemolo, aveva alla fine accettato di andare a Città del Messico. Daniele era stato incaricato dal fratello maggiore di accompagnarlo nella spedizione e di far scudo a chiunque fosse andato a disturbare la tranquillità del campione. Inoltre, in privato, anche Vittori lo avrebbe raggiunto– di gianni minà, Storia di un Boxeur Latino

 

    Edwin Moses

Edwin Moses è l’America che stimo, che non mi imbarazza, che non mi lascia perplesso. Moses è infatti un po’ il simbolo di quella visione della vita, di quella cultura del lavoro, in verità ormai un po’ sbiadita anche negli Stati Uniti, per la quale se uno è il migliore nella sua attività, non lo è per raccomandazione, ma per talento naturale, arricchito però da lavoro, studio, applicazione. Spesso questo tipo di lord americano è brillante solo nella sua attività, ma in quella è sicuramente insuperabile. Edwin, il più grande campione della corsa dei 400 ostacoli della storia dell’ atletica, non è però, secondo me, un esempio soltanto perché è il più bravo in questo gesto sportivo dove, unico al mondo, fa il giro di pista scavalcando le barriere, correndo la distanza fra ostacolo e ostacolo sempre in 13 passi; Edwin Moses, dicevo, è per me inimitabile perchè rappresentante di quell‘America non arrogante, non urlata, non imposta a tutti i costi, malgrado il suo valore sia enormemente più sicuro di quello di tanti altri fenomeni dello sport e non, proposti dalla civiltà Usa. Moses, che in dieci anni ha perso due volte, non è stato però proposto come superman, come immagine di un paese, non tanto perchè – come successe ad esempio a Cassius Clay Muhammad Alì – era o è un antisistema, quanto perchè non è stato e non ha voluto essere mai schiavo dei riti delle comunicazioni, dell’advertising, dello show business. Una scelta di moderazione, di semplicità, insomma di certi valori umani invece che di altri. Moses non è Carl Lewis e non è Sugar Ray Leonard, massimi esempi di questa società dell’immagine. Edwin è mite, discreto, paziente anche se forse più di questi simboli sopra descritti, ha cercato, inseguito e guadagnato nell’ atletica una sua rivincita sociale, culturale e umana[Repubblica, 2 settembre 1987]

 

    Enzo Bearzot

Scopro che Bearzot non ha sbagliato solo la preparazione al Mundial messicano o una partita, no, Bearzot è per lo meno responsabile di tutti i mali oscuri e palesi del calcio italiano. Perché è tale, violenta, continua, ossessiva la campagna di molti giornali contro il c.t. che questa è l’ impressione che se ne ricava. Qualcuno è andato a cercare perfino Mondino Fabbri perchè sputasse veleno sulle scelte di Bearzot e certo questo è stato un po’ patetico e grottesco da parte del giornalista e da parte del buon Mondino perchè un c.t. responsabile della pagina più avvilente del calcio italiano, la famosa sconfitta contro la Corea nei Mondiali del ‘ 66, dovrebbe magari per buon gusto negarsi a certe provocazioni. 

So comunque che Bearzot ha salvato la faccia al calcio italiano qualificandosi con un enorme anticipo per il Mundial del ’78, ben figurando a quel torneo e agli Europei di Roma (quarto senza aver mai perso) malgrado gli avessero un mese prima dell’evento sottratto due punte titolari Rossi e Giordano per lo scandalo scommesse. E infine Bearzot ha vinto il Mundial 82. In tutti questi anni le nostre squadre di club, allenate da genii della panchina da tutti reputati più preparati di Bearzot e ricchi di fuoriclasse come Beccalossi che magari il c.t. ignorava in nazionale, non vincevano nulla in campo internazionale, anzi non esistevano proprio fino a che non sono cominciati ad arrivare gli stranieri, anzi finchè non sono arrivati Platini e Boniek nella Juve, perchè gli altri clubs hanno continuato a non esistere [Repubblica, 25 luglio 1986]

 

    Teofilo Stevenson

C’è stato un momento in cui Teofilo Stevenson a Cuba era amato e ammirato quanto Fidel Castro. E per chi conosce l’affetto che la gente cubana ha per Fidel questa era stata certamente un’impresa. Teofilo Stevenson, pugile figlio di un nero originario di San Vicenzo, nell’arcipelago delle Barbados, quattordici fratelli, una boxe elegante, ma anche un montante destro che distruggeva, è stato protagonista di questa impresa negli anni ’70.

L’anno scorso il suo carattere, la sua incapacità a farsi capire lo hanno portato a una realtà drammatica. La sua donna aveva deciso di lasciarlo e si era messa con un altro uomo. Teofilo non è stato capace di accettare questa realtà e un giorno, dopo aver picchiato la sua ex compagna, ha addirittura incendiato l’automobile del rivale. In un paese come Cuba nemmeno l’essere Stevenson campione amato e apprezzato dal grande Fidel ha permesso all’eroe nazionale che aveva distrutto la speranza bianca nordamericana Bobick, di evitare la legge. Così Stevenson fu assegnato a una specie di istituto di rieducazione, non proprio un carcere.

Probabilmente Stevenson non sapeva che nemmeno la revolucion può aiutare un uomo che non è capace di vivere con equilibrio i propri sentimenti, accettando le sconfitte della quotidianità. Amaro destino quello dei pugili, professionisti o dilettanti. Monzon come Teofilo Stevenson, anche se differenti sono le dimensioni del dramma. È proprio vero, come ha affermato Norman Mailer, che i pugili sono gli uomini migliori del mondo, non perchè hanno il coraggio di battersi sul ring, ma perché pur essendo gli esseri più soli nel mondo, hanno il coraggio di non fartelo sapere[Repubblica, 10 marzo 1988].

 

  Marco Pantani

Anche il mondo delle biciclette (dove pure non circolano i soldi del calcio) è pressato, condizionato dalle esigenze del business televisivo, degli sponsor e del disinvolto agire delle grandi industrie farmaceutiche che hanno trovato nell’ universo di chi fatica sulle due ruote, terreno più facile di cultura per i loro esperimenti. In bicicletta più che andar forte è importante infatti resistere, oltre ogni limite, superando la soglia del dolore più che in qualunque altra disciplina sportiva. Così anche un campione come Pantani che non ha rivali, a parità di condizioni, con nessun altro in salita o nelle corse a tappe, deve fare i conti con l’ambiguità della medicina, della cosiddetta scienza applicata allo sport. E così ne può uscire beffato, offeso Purtroppo, i tempi che viviamo non hanno più tempo per queste considerazioni. Il campione non ha scampo. Deve vincere sempre e non importa come. E se poi questa logica lo porta ad inciampare in qualche contraddizione non aspetti comprensione. Così è la vita. Per questo sentiamo di dover dire: resisti Pirata [Repubblica, 10 giugno 1999]

 

   Una storica intervista a Maradona

Sta lì davanti alle telecamere della mia troupe con uno sguardo malinconico, smarrito, inusuale per il suo orgoglio argentino. Diego Maradona ha accettato di raccontare qualcosa di sé per il programma di RaiUno sulla storia dei grandi club di calcio ma è come se la terapia alla quale lo stanno sottoponendo i due psicologi, uno argentino, l’altro di origine peruviana, gli avessero tolto le antiche sicurezze. 

“So di aver fatto del male prima di tutto a me stesso e quindi alla mia famiglia, alle mie figlie. Credo che in futuro imparerò a volermi più bene, a pensare di più alla mia persona”. Accarezza Dalma e Gianina che sono vicine a lui con la moglie Claudia davanti alle telecamere, per la prima volta dopo “che il mostro Maradona è stato sbattuto in prima pagina per sviare l’ attenzione della gente e far dimenticare storie molto più mortificanti dell’Argentina di oggi” e per la prima volta da quando lo conosco appare esitante, come se le parole faticassero ad accompagnare, ad esprimere il suo pensiero. Soffre e ci ispira una grande tenerezza e solidarietà umana. 

Ti vergogni di quello che hai fatto?. 

“No. Non ho fatto male a nessuno, salvo a me stesso e ai miei cari. Mi dispiace, sento una profonda malinconia, soltanto questo. Perché dovrei vergognarmi? Non ho ammazzato nessuno”. 

Ma un atleta, un campione non dovrebbe essere un esempio?

“Forse era così una volta, quando lo sport era diverso, quando noi atleti non eravamo solo gli ingranaggi di una macchina di interessi immensi economici, politici, industriali, di immagine. E poi, anche se fosse così, la realtà è che io non me la sentivo più di essere un simbolo, di rappresentare qualcosa, di reggere tutto lo stress che procura questa macchina, questo calcio. Confesso la mia incapacità, la mia fragilità, anche se la mia presunzione, il mio orgoglio mi facevano apparire diverso”.

Come spiegherai questa storia alle tue figlie?

“Molto semplicemente. Dirò che papà non è perfetto, non è un santo, che ha sbagliato anche lui, che era il più bravo a giocare al pallone, ma che questo non lo ha salvato ad un certo momento dall’infelicità, dopo tanta allegria. Così ha cercato una stupida fuga dalla realtà. Non sentirò vergogna a spiegarmi con loro, come non l’ho sentita quando sono venuti ad arrestarmi, essendosi premurati prima di invitare tutti i mezzi di informazione possibile per trasmettere il mio arresto in diretta minuto per minuto senza nessun rispetto dell’essere umano, qualunque fosse la mia colpa. Questo è stato indegno. C’era bisogno di un grande show per confondere gli argentini e mi hanno usato senza pietà. Il poliziotto che mi portava fuori mi ha consigliato di coprirmi il viso con il giubbotto ed io mi sono rifiutato. Perché dovrei farlo – gli ho chiesto – non ho ammazzato nessuno, poi gli ho suggerito mettiti a posto la cravatta, c’è la televisione. Ha seguito il mio consiglio senza pensarci su. Un secondo dopo però ha sorriso scuotendo la testa. Aveva capito l’assurdità della situazione e della commedia che eravamo costretti a recitare”.

E ora Diego? Tornerai al calcio, in Italia? 

“Non fatemi recitare più. Per ora il calcio l’ho lasciato alle mie spalle. Il calcio di Maradona protagonista non mi interessa più. E tantomeno l’Italia. Chi poteva darmi una mano non me l’ha voluta dare quando potevo salvarmi e magari servire a costruire un altro Napoli vincente. Il risultato? Il Napoli ha vinto un campionato di più ma è finito tutto e io ho pagato per questa storia un prezzo altissimo. Adesso mi manca il calore di alcuni amici, l’amore della gente di Napoli, ma non il resto. Non voglio più essere al centro della recita, al centro dell’attenzione, il parafulmine di tutto. Non voglio più essere l’immagine da distruggere per battere il Napoli. Non voglio più essere costretto a giocare anche quando non sono in grado, a farmi infiltrare di cortisone perché devo essere in campo per forza per gli abbonamenti, per gli incassi, perché bisogna vincere a qualunque costo per lo scudetto o per la salvezza, perché in ogni partita ci si gioca la vita. Quale vita? Io sono felice della mia tranquillità attuale, voglio una vita in ombra” 

[Repubblica, 15 agosto 1991]

 

    George Foreman

Mi fa un certo effetto apprendere che sabato notte, a Las Vegas, terra di esagerazioni e di scommesse, George Foreman, a quasi 46 anni, ha riconquistato il titolo mondiale dei massimi per due delle 5 federazioni (Wba e Ibf) che si dividono la torta dell’ormai decadente pugilato, battendo un tale Michael Moorer, più giovane di lui di 20 anni, per ko alla decima ripresa. George, texano di Marshall, era il tipico ragazzo nero americano che, nell’età dell’adolescenza, aveva trovato un po’ di benessere grazie alla potenza dei suoi cazzotti. Amava il baseball, la Coca Cola, il pop corn e la televisione. Quando fu scaraventato in Zaire per un match che aveva mille motivazioni commerciali, geopolitiche, etniche, non si sentì a suo agio. Non gliene fregava nulla di quello che c’era intorno. Il rinvio di un mese del match, per un suo incidente in allenamento, aumentò il disagio. Muhammad Alì, invece, aveva trasformato la vigilia nel trionfo dei suoi ideali, scoperti prima con Malcom X e poi con i Black Muslims. Si sentiva a suo agio davanti al fiume Congo, il fiume della tradizione nelle ballate degli ex schiavi d’America, e trasformò quest’allegria in una guerra psicologica. Il giorno delle operazioni di peso le sue provocazioni rischiarono di anticipare lo scontro. Foreman fu trattenuto, ma la rabbia lo aveva già sconfitto. Ora Foreman è un pugile di quasi 46 anni, capace di quelle interviste piene di spessore umano che erano il suo handicap rispetto a Cassius Clay-Muhammad Alì. Qualcuno sostiene anche che è nuovamente il miglior massimo del mondo. Se è vero, significa che George è il campione di uno sport che non c’ è più [Repubblica, 7 novembre 1994]

 

Muhammad Ali. la nascita di un’amicizia

Ali rispondeva seccato, non collaborava, non ci dava retta. Sfuggente, distratto e intrattabile, esibiva la sua plateale diffidenza nei confronti di un giornalista europeo. Era stato appena squalificato, e non si fidava dei giornalisti bianchi che gli chiedevano tutti le stesse cose: perché avesse cambiato identità e religione, perché si fosse messo in politica. Lo perseguitavano, senza dargli mai la sensazione di essere realmente interessati alle sue ragioni. Io non ero stato da meno. Avevo sbagliato l’apertura, mi ero gettato verso di lui in un corpo a corpo che non

avrebbe prodotto nessun frutto. La mia tattica era stata prevedibile. Ma io volevo capire. E verso la fine dell’intervista, Ali aveva intuito che le mie domande si erano fatte un poco più oneste, e con la stessa onestà aveva iniziato a collaborare.

Al termine della registrazione, ci eravamo alzati in piedi. Muhammad si era avvicinato minacciosamente. Avevo capito quello che si prova quando un pugile ti sovrasta e sai che l’incontro non potrà avere altro esito che il tuo ko. Mi aveva guardato in silenzio, poi la sfida e la provocazione che abitavano sempre i suoi occhi si erano allargate in un sorriso amichevole. Mi aveva posato un pugno chiuso sulla guancia e mi aveva detto:

«Lo so, l’intervista non ti è piaciuta, ma pensavo che anche tu fossi a shit man, uno di quei soliti uomini di merda che vengono dall’Europa e vogliono insegnarmi come devo vivere, cosa devo fare e cosa devo pensare. Io penso e faccio quello che credo opportuno, e nessuno ha il diritto di farmi il processo. Dalle vostre parti, pensano che i pugili siano solo dei poveracci senza cervello. Io sono fiero, però, di essere il figlio di uno che disegnava le Madonne sui marciapiedi. E, nel finale, qualche risposta te l’ho data. Volevo comprendessi che non sono matto. Ci rivedremo presto, e ti prometto che la prossima volta chiarire tutto quello che vuoi sapere» Mi aveva salutato così, e aveva allungato il palmo chiaro della mano per stringere la mia. Non avrei mai pensato che ben presto sarei diventato un amico di quello che già allora era soprannominato «The Greatest». di gianni minà, Storia di un Boxeur Latino

 

 

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