Sai, Gianni, stasera c’è la finale e la guardiamo senza Mario

 Che rami crescono da queste pietrose rovine?

T. S. Eliot

 

 I MONDIALI | 22ESIMA STAGIONE, EPISODIO VENTINOVE

  Dicono che il mare d’inverno è un concetto che il pensiero non considera, forse è così, dipende, questi sono giorni di mare d’inverno a Senigallia come a Doha. Certi tipi hanno portato dall’Italia fino al Qatar ottocento ombrelloni, tremila lettini, cinquecento sdraio e quattro torrette di salvataggio, oltre a una ventina tra bagnini e operatori balneari, per promuovere l’Adriatico sul Golfo Persico. Pare l’inizio di un esercizio a un pessimo corso di scrittura creativa, l’allievo prosegua il racconto usando i seguenti elementi: barca, palo della luce, tristezza. L’atrocità è che l’hanno chiamata temporary beach. Tranne che a Battiato, non dovrebbe essere permesso a nessuno.

Ora che tutto è finito, sceicchi bianchi e vitelloni d’Arabia vanno smontando il set, gli ombrelloni, la barca, il palo della luce, smontano tutto e ci lasciano la tristezza, o forse è solo un cattivo pensiero rimasto impigliato nella coda del primo mondiale Senzamura, ieri sera diventato all’improvviso pure Senzamario.

Tre lettere su cinque in comune, la giusta misura per sentirli vicini e quanto basta per giudicarli distanti. I due rami più ricchi dell’albero Brera, domani sono trent’anni dalla sua morte. 

 

Sai, Gianni, stasera c’è la finale e la guardiamo senza Mario. C’è la Francia delle tue estati, anche se siamo a dicembre. La Francia che uno ti leggeva e le voleva bene, diventava nostra, diventava di tutti. Però c’è pure l’Argentina del tuo Angelillo, il campione così amato al punto da farti cambiare squadra quando lui cambiò la maglia. L’hai raccontato tu, altrimenti chi l’avrebbe mai capito per chi facessi il tifo, tu che mettevi il cuore in direzione delle persone, prim’ancora che di una squadra o di un campione. 

C’è un’eco che arriva ogni volta a tradimento da qualche parte, un’inondazione a Ischia, una bicicletta accartocciata da un camion a Montebello Vicentino, l’ipocrisia del calcio che era nell’ultimo pezzo tuo, con le maglie e la scritta respect diventata per anagramma spectre. Bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi stamattina, su questo tappeto di cocci di vetro. È un micidiale scherzo scoprire che l’ultimo calciatore di cui hai parlato sia stato un Marocchino, nel senso di Domenico, l’ala folle di cui si scrive volentieri non solo perché da opinionista su Rai 2 non è mai banale, ma perché viveva mettendo prima del calcio le ragazze, le sigarette, il cinema, le mostre d’arte, i vini rossi”

 

E il vino in Qatar? E questa Var? E lo Zar? Insieme ai molti echi ci sono le risposte che non avremo, i molti vuoti, i dubbi senza più una sponda. I bambini sono serissimi quando fanno il gioco del silenzio. Tacere è più vero che tirare a indovinare nell’altro gioco del cosa avrebbe detto Gianni di – e da stamattina pure del cosa Sconcerti avrebbe scritto su

Sconcerti avrebbe continuato a parlare con la sua voce controvento, alla ricerca di qualcosa che spiccasse e si distinguesse, fosse pure per un giorno solo, una sete di unico, la diversità, la sua parola preferita. Un’ansia di indagine che lo ha portato a scrivere almeno tre titoli fondamentali in ogni libreria: Storia delle idee del calcio [2009: qui], Il calcio dei ricchi [2012: qui], Storia del gol [2015: qui], nei quali il pallone incrocia le traiettorie dei popoli e del pensiero filosofico, come in Baggio vorrei che tu Cartesio e io… [qui] fino alla pura ricerca storica compiuta in Romolo. L’alba di Roma da riscrivere [2011: qui].

Forse l’interesse principale di Sconcerti è stato lo studio dell’evoluzione, la misteriosa scintilla della novità da scovare, fino a scorgerne una piccina e relativa dentro ogni partita, la caccia al tesoro della sorgente primitiva. Per gli strani giri che piacciono al Caso, le sue ultime parole da editorialista del Corriere della sera restano quelle di lunedì 5 dicembre, sul gioco di Deschamps e Southgate: Il divertimento del calcio è che c’è sempre un margine di miglioramento imprevisto da aggiungere. Di solito è la parte migliore”.

 

Quando era morto Mura, Sconcerti aveva scritto che Gianni aveva una facilità di trovare parole che nemmeno Brera aveva. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare tutti e tre insieme. Io guidavo la barca, loro mettevano il vento. Era meno forte di Brera, che quando voleva ti annientava con una smorfia. Mura era sempre dalla tua parte, davanti al mondo o a una minestra. Aveva parole e sintesi per tutto, le mescolava e ne uscivano filastrocche ma anche poesie purissime, fulminanti. Era possessivo, infantile, bisognoso di cura, di una luce dagli altri che ne illuminasse la diffidenza, forse la solitudine. È inutile paragonarlo a Brera, era un’altra cosa. Ed è una sciocchezza che il giornalismo sportivo debba permettersi un solo maestro. Brera era fantastico e provocatorio, Mura era quasi snob nel suo bisogno di popolo. Era un raccontatore puro, un ricercatore di dettagli, non un tecnico. Dava il meglio di sé nel ciclismo e nelle gare tra individui. Dove ci sono le facce. Ancora tanto tempo fa, quando sembrava che stessi per diventare direttore della Gazzetta, ci fermammo a costruire i nostri ruoli futuri come due adolescenti. Io a pensare e lui nel mondo a raccontare, prima firma assoluta

Di cercare futuro Sconcerti non ha smesso mai. Aveva chiuso a fine ottobre la sua linea podcast [Un cappuccino con Mario Sconcerti], quando cominciai pensavo di arrivare a un centinaio, ne ho scritti quasi mille. È stato faticoso, ma mi hanno fatto sentire dentro un calcio diverso da quello che vivevo nelle altre mie realtà. Mi sono sempre sentito a casa mia, ma domani è un altro giorno, senza cappuccino, e io potrò finalmente prendere un tè.

Ha usato quel mezzo come uno spazio di libertà assoluta, prendendosi il lusso di pronostici senza strada davanti, di visioni profetiche [Sull’accordo tra la Juve e i suoi giocatori ho molti pensieri di ritorno. Non un grande esempio” – aprile 2020] e di riflessioni assolute sul senso della vita in pieno lockdown:  

 

   Sono due mesi che vi parlo dalla mia stanza. Ho i capelli che arrivano alle spalle, come quando ero uno studente chiuso dentro le Università occupate. Ho visto più cose in questi due mesi che forse in tutta la vita, sospeso nel niente eppure con la testa a cercare di capire in fretta, per essere il primo a scappare. Ci sono state notti in cui ho avuto paura, sentivo arrivare qualcosa di indistinto, mentre intorno il silenzio moltiplicava la veglia. Così adesso mi sembra di svegliarmi in una specie di primo giorno e di parlare a un mondo di sopravvissuti. Vorrei ne fossimo coscienti. Abbiamo vissuto, lo stiamo vivendo, qualcosa di eccezionale e drammatico che ha dato importanza alla nostra vita. Non siamo più la generazione del niente, dell’uguaglianza così pallida da diventare uno scarto. È come se il virus avesse dato storia a ciascuno di noi. Non siamo più indistinti. Siamo stati due mesi dentro la notte e ne siamo usciti. Siamo tutti reduci. Finalmente abbiamo un passato reale [8 maggio 2020]

 

Non era contemplato che al vuoto di Mura così fresco, sei mesi dopo la morte di Gianni Clerici, se ne aggiungesse all’improvviso un altro. Non è giusto direbbero i bambini, incapaci nella loro psicologia di pensare a qualunque torto senza un risarcimento, al sopravvento della cattiveria senza l’azione riparatrice di un adulto che possa ricomporre l’equilibrio, qualcuno che arrivi dal mondo dei grandi per aggiustare. Gigante, pensaci tu. Ma dove lo trovi un gigante quando i giganti se ne vanno?

 

Quaggiù stiamo ancora cercando una parola al posto di turnover, evitando di scrivere top player [ops]. Potremo forse cercare i giganti nei suffissi che trasformano un nome in aggettivo. In un giocatore muriano ogni volta che ce ne sarà uno quasi figlio suo, stesso passaporto, cittadino della sua nazione morale [Koulibaly? Kjær?]; in uno murabile, che si trovi incamminato sulla giusta via [Tonali?], in un muruto come forzuto viene da forza [Amrabat?]. Così cercheremo un giocatore sconcertevole, uno sconcertistico, uno sconcertoso, uno sconcertesco. Questo ci resta. Sono giorni di mare d’inverno e non viene mai nessuno a farci compagnia. Ma il prossimo Tour, Gianni, Mario, promette bene.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.