La musica di Gianni Mura | anagramma di “anagramma ludici suini”

 ▻ Ventiquattro giorni prima che a Sanremo vincesse Laurent Jalabert battendo allo sprint Maurizio Fondriest, Gianni Mura a Sanremo c’era andato per il festival, per la prima volta, sanando in fondo un vuoto anomalo per un appassionato come lui. Nell’archivio di Repubblica la parola canzone appare nei suoi pezzi 269 volte e canzoni 169. Facciamo che siano la stessa cosa e in totale fa 438. Musica 428 volte. Musica + canzoni fa 866. Per dire: fuorigioco arriva a 498, polemica + polemiche a 407. 

Era l’anno a Sanremo (1995) di un Bocelli semi-esordiente e della vittoria di Giorgia con Come saprei. Gli piacque la voce, la canzone così così. C’era Ray Charles come ospite e andò a sentirlo in conferenza stampa, c’era Madonna (Ho promesso a mia nipote che le avrei fatto avere l’autografo. Mentivo, sono un vile. Spero che si accontenti di quello di Nicola Berti), c’era Toto Cutugno che voleva andare a vivere in campagna. Potrebbe averla scritta Gavino Sanna, nel senso che c’è proprio tutto quello che ci si aspetta di trovare in uno spot bucolico: la rugiada che bagna, la terra da zappare, la luna piena, il nonno, la vendemmia, la festa in piazza, la chiesa, le case, la maestra che coltiva le rose, la vecchia corriera, lo stagno che sembra il mare, la giostra, il prete, il carabiniere. Mancano, a voler essere pignoli, il cane fedele e la puttana di buon cuore, ma torneranno sicuramente utili in altre cutugnate.

 

Aveva strappato e messo in tasca la pagina 57 di Sorrisi e Canzoni, dove c’è una scheda per votare, divisa in quattro colonne: parole, musica, interpretazione e look. Sai quanto gliene importava del look a Giorgio Consolini quando cantava “vecchia villa comunale“, e a Nilla Pizzi, quando non c’era ancora la tivù e si imparavano le canzoni a memoria comprando i libretti dell’editore Campi di Foligno

Si imbatté in un pezzo di Fiorello che ha il fascino di un biglietto del tram scaduto in un rigagnolo della Bovisa, in canzoni d’amore solo triste (l’amore) e altre nelle quali la vita di tutti i giorni – scrisse – non entra quasi mai. I colleghi esperti di Sanremo dicono non è un testo da Sanremo con aria afflitta, appena in un testo c’è una scintilla, anche vaga, di realtà, di poesia, di intelligenza, ma forse sbaglio io, al primo impatto si sbaglia facile.

Andò senza snobismo perché è dalla prima edizione che lo ascolto o lo vedo, ma solo standoci dentro ho capito quanto poco contino le canzoni. La mia tesi è che Sanremo sia sempre più un pretesto per altro. Giuro che appena durerà tutta una settimana non ci verrò più. Già così mi fa impressione: le Olimpiadi, con un numero leggermente superiore di partecipanti, durano appena nove giorni più e lo impressionava il fatto di andare in giro con il pass al collo, faccio pubblicità contemporaneamente a RaiUno, al Comune di Sanremo, all’acqua San Benedetto, alla Coop, a Interflora

In certi bar di provincia c’è sempre una fisarmonica o una chitarra sull’ultimo tavolo in fondo.

Arriva da fuori uno e si mette a suonare. Come fa Pantani con le salite vere

Gianni Mura

Figlio di un maresciallo dei carabinieri, era cresciuto in tre caserme (a Santa Maria della Versa nell’Oltrepò Pavese, a Brugherio e a Cesano Maderno), dove aveva imparato ad ascoltare le più diverse canzoni dialettali, quelle che fischiettava il padre facendosi la barba (Granada, Amapola, Come pioveva) e le altre trasmesse alla radio. Perché la TV non c’era, se non a casa dell’elettricista Brunetti, invasa dalla famiglia Mura ogni giovedì per vedere Lascia o raddoppia oppure – eccoci – per il festival di Sanremo. Sua nonna diceva di Nilla Pizzi che fosse la regina della canzone, a Mura piaceva di più Jula de Palma e per spirito di ribellione verso gli altri che mettevano al primo posto Claudio Villa davanti a Luciano Tajoli e Achille Togliani, si era votato a Giorgio Consolini, più tardi a Domenico Modugno. È questa la genesi di una passione, raccontata molto nei dettagli in un libro del 2017, Confesso che ho stonato (Skira editore), assolutamente imperdibile, con una copertina disegnata da Altan: un maiale antropomorfo al microfono, o forse chissà, un uomo suinomorfo. Avrebbe scoperto gli chansonniers francesi più tardi, studiando a Milano, piena di negozi di dischi nei quali perdersi e dove fare una grande scoperta.

 

  pagine Avrei voluto fare il cantautore. Il giornalismo è stato un ripiego. Lavoro con le parole, musica nisba. Finché ho potuto usare una vecchia Olivetti mi sentivo in minima parte suonatore. Una via di mezzo tra pianista e percussionista, lavoravo su uno strumento che aveva un suono, faceva rumore. Adesso tutto tace. Entri in una redazione e ti pare di essere in banca,  o in una filiale d’agenzia di assicurazioni, luoghi non particolarmente suggestivi. Ogni tanto ci ricasco, la musica mi attira pericolosamente, come il mare uno che non sa nuotare.

da Confesso che ho stonato (Skira editore)


  Anche di questa sua vocazione frustrata racconta il bellissimo documentario di Emanuela Audisio, Mura Am(o)ur (3D Produzioni), stasera alle 21.15 su Sky Arte e a mezzanotte e mezza su Sky Sport 1 e poi on demand su Now Tv. Con un attacco folgorante che fa molto ridere, un intervento di Vinicio Capossela, le immagini di un’esibizione con Ricky Gianco, le parole di Renzo Arbore, Giovanna Marini, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, una canzone di Leo Ferré eseguita in chiusura dai Têtes de Bois, per i quali Mura aveva scritto un testo.


 

Prima e dopo quel festival 1995, Sanremo era per Gianni Mura il luogo delle serate del Club Tenco (Valgono sempre il viaggio), dove si era lasciato sorprendere un anno da Claudio Sanfilippo con il pezzo Senzabrera e con la traduzione in milanese di un pezzo di Tom Waits: È notorio che il milanese nelle traduzioni va come una lippa: l’ha magistralmente dimostrato Nanni Svampa con Brassens. Aveva conosciuto sempre là Ligabue, dal quale era stato colpito per una versione solo acustica di Certe Notti (più profonda e dolce, tra l’altro non so nulla di arrangiamenti, anzi mi sembra una brutta parola. Ci siamo scambiati i numeri di telefono) e dal programma del 2001 era rimasto stregato: Oltre a De Gregori e Capossela, anche un omaggio multiplo a quel grande che è Sergio Endrigo. E, cosa che non guasta, a Endrigo vivo. Cinque anni dopo scrisse di aver ascoltato bellissime voci femminili: erano Noa, Patrizia Laquidara, Luisa Cottafogli dei Quintorigo.

 

  Torna da una serata al Club Tenco e dà un passaggio a Giovanni Marini. Lei sonnecchia, lui tira fuori il suo repertorio di canzoni politiche. Giovanna a un certo punto si sveglia, lo prega di continuare, poi sentenzia: “Non sei stonato, sei diatonico“. Ricky Gianco è meno gentile, lo obbliga a un playback sul ritornello della canzone del Che.

di giuseppe smorto, il Venerdì

 

Aveva un Pantheon abbastanza ampio per essere ristretto, ma rigoroso, coerente, netto. Ha scritto 52 volte di Francesco De Gregori, sfidando nel settembre 2018 i lettori a trovare tre sue canzoni brutte. Per i testi ha una cura particolare. Se al posto di buonanotte, buonanotte fiorellino avesse scritto 24, 34, 29 il metro non sarebbe cambiato ma non so quanti gli chiederebbero il bis. Andò al funerale di Fabrizio De André (35 citazioni) e scrisse: Ci sono molti fiori, nelle sue canzoni, e non è solo il profumo che ci resta. Fabrizio non sarebbe stato Fabrizio se non avesse ascoltato Brassens, e un po’ di Brel e di Ferré, così uno di questi ragazzi che si sentono più soli un giorno troverà le parole giuste e i giusti accordi per la libertà e l’amore

Eccoli, allora, i francesi amati, perché – scrisse – se passa per poeta Mogol è chiaro che scelgo la Francia. Di Brassens ha scritto 46 volte, il maestro di tutti. Si vantava di non essere mai entrato in una banca e diceva di essere così anarchico da attraversare regolarmente sulle strisce pedonali. Di Brel 43 volte, un personaggio totale, come il calcio dell’Ajax, capace del registro buffo e del declamatorio, del tenero e del disperato, del rabbioso e del lirico. Di Leo Ferré 19 volte: Oggi sono giusto dieci anni che è morto. Avec le temps, Les anarchistes e altre ancora, questo ho messo su nella discesa del Galibier. Una buona compagnia.

I francesi, e le francesi. Sono riconoscente a Edith Piaf perché ho imparato da ragazzo che ci si può innamorare perdutamente di una donna e la bellezza conta pochissimo. Non ero innamorato di lei essendolo già di Juliette Gréco”

 


le canzoni italiane più belle secondo Mura | Titanic (Francesco De Gregori), Hotel Supramonte (Fabrizio De André), Ti te se no (Enzo Jannacci), Ragazzo mio (Luigi Tenco), Le parole incrociate (Lucio Dalla), Generale (Francesco De Gregori), Senza fine (Gino Paoli), Aria di neve (Sergio Endrigo), Canzone per te (Sergio Endrigo)


 

A Sergio Endrigo che stava in alto, molto in alto nella sua lista, il più francese di tutti, dismessi i panni del cantante da night, ha dedicato non solo 32 interventi ma anche un acronimo nel libro, dove diventa Serio, Elegante, Ribelle, Giovane, Intimista, Orgoglioso nel nome, e nel cognome Essenziale, Nostalgico, Dolceamaro, Realista, Impegnato, Giramondo, Onesto. E Paolo Conte? Citato 53 volte. Disse di aver scritto pensando a lui il romanzo Giallo su giallo. Enzo Jannacci era contravveleno di ispida tenerezza, doveroso controcanto all’aridità e all’avidità che stiamo attraversando, di Lucio Dalla gli piaceva il meticciato, non ha avuto paura di scrivere note sui testi di un vero poeta, Roberto Roversi. Né di scriverli lui, e anche belli, quando il sodalizio s’è interrotto. Canzoni preferite: Tu parlavi una lingua meravigliosa, Le parole incrociate, Quale allegria e Com’è profondo il mare. Quando andò a intervistare Francesco Guccini  (43 citazioni) trovò la casa stracolma di libri come immaginavo, un po’ gozzaniana all’esterno: i cespugli di ortensie, il pergolato di uva americana, il battente di ferro sull’uscio, come una volta. Ci sistemiamo in cucina. Il tavolo è molto grande e per metà occupato da altri libri. E poi: Nanni Svampa, Nicola Arigliano, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Giorgio Gaber, Umberto Bindi. Al Tour del 2003 aveva in macchina Woody Guthrie e Serge Reggiani. A trentotto anni dalla morte di Luigi Tenco scrisse un pezzo con 38 brandelli su Tenco, nel quale mostrava dubbi sulla pistola e sui bossoli nella stanza, sulla posizione nella quale fu ritrovato, sul fatto che nessuno avesse interrogato Dalida e suo marito Lucien Meurisse, niente prova del guanto di paraffina, niente autopsia. Il giorno prima Tenco aveva vinto sei milioni al casinò. Nella camera non c’era una lira. Strano poi che un suicida lasci la porta socchiusa con la chiave fuori, nella serratura

E insomma sì, era stonato, ma cantava. Al telefono. Quando chiamava e parlava con i versi, certe volte Roberto Murolo, Silenzio cantatore, Fenesta Vascia, o Pusilleco Addiruso

Quanno ‘o sole p”o monte se n’è sciso.

Voleva dire che era il tramonto. A pensarci solo adesso. 

 

 

Chi lo ricorda in queste ore

 

Nel giorno della Sanremo, Carlos Arribas su El País si è concesso nella sua cronaca una divagazione su una Fiat Topolino di colore amaranto parcheggiata, rosso intenso, e sebbene non ci sia nebbia ma un sole freddo, bisogna pensare a Paolo Conte, Voghera, La fisarmonica di Stradella e inevitabilmente a Gianni Mura in viaggio per il Tour con la sua Fiat Multipla, un posacenere nel bracciolo e Carletto al volante, e la voce e il pianoforte di Conte nel riproduttore di cassette, e la sua malinconia contagiosa

Marco Pastonesi su Avvenire ha scritto che i suoi pezzi erano dei macinati di libri e chilometri, trattorie e stadi, tunnel nel senso di pallone fra le gambe (i tunnel alpini, potendo, li dribblava), fughe nel senso di atti di coraggio ciclistici, alici marinate con la salsa verde o anche alici aperte, impanate e una sull’altra fritte. Mura amava i sopravvissuti, i gregari, quelli che non si raccontavano e che poi lui trovava il modo di farlo. Mura ripassava dalle parti del cuore. Ancora, adesso, così.

Valerio Piccioni su Sport Week ricorda che più che scrivere, gli piaceva raccontare. Le sue storie partivano sotto casa e andavano in giro per il mondo, non amava i superlativi, piuttosto la narrazione intima, quasi confidenziale con il lettore

Sull’inserto culturale Alias del Manifesto Massimo Raffaeli ha trovato una chiave, indicando che Mura amava nel profondo la vita ma non era un vitalista proprio perché la amava di un amore mai esibito e, semmai, tradotto in gesti silenziosi, in parole laconiche e comunque pronunciate sottovoce. Gianni Mura, qualcuno per cui è lecito sul serio provare nostalgia e insieme una grande malinconia, la quale corrisponde al sentimento umano che segnala un vuoto, una mancanza.

Sempre su Avvenire, Massimiliano Castellani ricorda che Gianni era con Emanuela e la moglie Paola, l’ultima volta che ho ascoltato al telefono la sua voce inconfondibile, impastata di saggezza, vino rosso doc e nicotina. Era la sera che iniziò questo incubo chiamato Coronavirus, marzo 2020. «Sono a Senigallia, ma credo che scenderò ancora più a Sud, perché il virus cammina…», disse al telefonino, a me e a Gerri Mele: il nostro amico, il saggio locandiere del Vecchio Porco di via Messina a Milano. Sardo come lui (di Busachi), Gerri è l’amico di Gianni che, più di tutti noi, ne sta custodendo la memoria. Con sua moglie Simonetta va a “trovarlo” settimanalmente al cimitero di Lambrate dove sulla tomba ha posto un maialino simbolo del locale – il più amato da Mura, assieme a La nuova Arena del fratello Gianni Mele e L’Osteria del Treno di Angelo Bissolotti – e poi lascia l’immancabile pacchetto di sigarette. Un po’ più in là, in un loculo troppo anonimo per la grandezza dell’uomo, riposa un altro fuoriclasse del giornalismo sportivo, Beppe Viola”. Castellani scrive che forse gli sarebbe piaciuta la storia, assolutamente unica ed esemplare, di Mike Wallace: politico irlandese, deputato al Parlamento Europeo, innamorato perso del Torino. Un vecchio cuore granata di Dublino, chioma folta e canuta, stile Robert Plant (oggi) dei Led Zeppelin, che ogni tanto si presenta candidamente all’Europarlamento in jeans e maglietta granata perché gli piacciono gli sfavoriti. 

Nel suo blog per Huffington Post, Darwin Pastorin ricorda quel vino bianco canavesano, le tue amate parole crociate, la crescita del calcio femminile, i versi di Abelardo Delgado. Parlavi di tutto e con tutti, sapevi soprattutto ascoltare. Non ti ho mai visto preso da nuvole d’ira, ma indignato sì: contro i falsi, gli arroganti, i venditori di fumo, gli ipocriti. Ti rasserenava il suono di una fisarmonica o un canto sardo. Oggi è una giornata di sole, ma non riesce a consolarmi. Oggi è tempo di una sottile, dolcissima malinconia”.

 

Repubblica stamattina prova a leggere attraverso Giuseppe Smorto l’anno che non verrà con lo sguardo di Gianni Mura: quello che c’è stato, come l’avrebbe forse inteso. I derelitti e gli ultimi della Terra continuano ad essere respinti, e noi non abbiamo più tempo per loro. Servivi anche tu a ricordarlo con quelle due colonne della domenica

Emanuela Audisio ha invece intervistato l’ex pallavolista rumena Rodica Popa, che Gianni Mura aveva incontrato nel gennaio del 1991 quando lei giocava a Sassari (Ha quella bellezza un po’ da donna del West). Attaccò il pezzo scrivendo: È come se Maradona tra dieci anni giocasse a Mantova”. La considerava l’intervista più bella. 

Popa adesso vive a Fano, si occupa come giardiniera di un resort turistico sulle colline. Racconta a Emanuela Audisio che l’ha scovata, come da quell’incontro nacque un’amicizia.  «Chiamò al telefono e a me che ero sua lettrice e che assorbivo i suoi articoli sembrò un miracolo. Chiese un’intervista, dissi sì, io giocavo in serie B, gli diedi l’indirizzo di casa, si presentò. Il mito che bussa alla tua porta. Uscimmo a camminare per Sassari, mi portò in cantine ed enoteche, mi spiegò i vini. A quel primo incontro seguirono altre volte. Mi offriva pranzi in ristoranti che non potevo permettermi. Mi ha insegnato a bere e a mangiare. Chi lo

sapeva che ogni piatto vuole il suo vino? Certo poi dovevo trovare scuse per saltare

l’allenamento. Ve lo immaginate: correre, saltare, schiacciare dopo un pasto con Mura?

Era la mia trasgressione preferita. Mi faceva sentire Brel, Ferré, quelli che piacevano a lui. Tutti tristi, forse troppo. Io mi accontentavo dei Pooh e di Morandi. A Matera con lui ho fatto il giro dei ristoranti, ma mi anche insegnato a capire il ciclismo e con lui ho condiviso l’interesse per i gialli e per il mondo letterario del crimine. Devo a lui l’apprendimento di tante cose, il guardare alle radici, a quello che c’è dietro le persone. Sono andata a trovarlo a Milano, a casa sua, ho conosciuto Paola, la moglie. Oggi se qualcuno mi chiede del volley di Conegliano, dico che la squadra è troppo forte, ma anche che quella terra è fantastica per il prosecco, che Gianni mi ha fatto conoscere. Poi ci siamo persi di vista, è rimasto un amico lontano, quando ho saputo della sua morte ho avuto uno shock fisico. Non ho vecchie foto, né le voglio di adesso, del passato non ho tenuto niente, né trofei, né medaglie. Ho salvato solo una cosa: l’articolo di Mura. Dentro c’era tutto quello che ero io e tutto quello che era lui. Ma senza la fine».

 

Sono molto affezionato alla Bonarda vivace, è un ricordo d’infanzia che mi accompagna.

Se la bevo a occhi chiusi mi sembra di sentire una fisarmonica e di vedere le lucciole 

sulle aie di Santa Maria della Versa, dove ho avuto la fortuna, 

autentica, di muovere i primi passi e di assaggiare 

il primo bicchiere di vino (un Moscato annacquato) all’età di 4 anni e 2 mesi

Gianni Mura

 



 

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A cura di Angelo Carotenuto.

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