La genesi della boxe femminile

Le donne con i guantoni hanno attraversato una strada lunga e senza rettilinei. La prima è stata Maria Moroni, aveva 24 anni quando nel 1999 si era dovuta tesserare prima in Croazia e poi in America perché in Italia le chiamavano ancora pugilesse per deriderle. Non esisteva un movimento, non esistevano regole, non esistevano nemmeno troppi sogni. A parte il suo. Lo stato italiano avrebbe riconosciuto la boxe femminile con un decreto ministeriale del 4 aprile 2001 firmato dal ministro della Sanità Veronesi, incalzato dell’allora ministra per le Pari opportunità, Katia Bellillo. A Maria Moroni venne consegnata la tessera numero 1 da Franco Falcinelli, l’ex CT passato alla guida della federazione. Aveva già combattuto due match da professionista all’estero, sarebbe diventata ancora la prima donna pugile laureata in Giurisprudenza, la prima eletta in consiglio federale, oggi giornalista e conduttrice tv. Il resto è successo in vent’anni esatti. 

«Prima del 2001 – ha detto in una intervista a Cernusco Donna – le donne non potevano salire sul ring se non per sculettare, una cosa che io aborro e mi fa arrabbiare, anche se fa parte dello sport la donna discinta che gira i cartelli».

Una donna pugile, spiegava, viene invece immaginata greve e brutale. «Non è così. Se nasci mascolina è perché madre natura ti ha fatto mascolina, non perché pratichi la boxe. Se sei graziosa rimarrai graziosa anche se pratichi la boxe. Non bisogna cadere nello stereotipo che la boxe faccia male alla donna, che la peggiori nei modi, che le faccia togliere la sua grazia e la sua femminilità. A disputare tantissimi match dopo un po’  i lineamenti del viso ne risentono. Si può immaginare. È come la discesa libera dello sci. Per disputare quelle discese a quelle velocità una sciatrice ha i quadricipiti quanto me e lei messe insieme. Viene da sé. Con questo non immagino Deborah Compagnoni grezza o mascolina. Bisogna far cadere i tabù e i luoghi comuni. Io non sembro pugile. Però menavo». 

 

A stereotipi e cliché sulla donna e la boxe si è dedicata nel suo lavoro Imane Kaabour, origini marocchine, antropologa, pugile dilettante, istruttrice sul ring in una palestra di Genova. Nella sua tesi di laurea dal titolo L’identità non esiste ha scritto che il pugilato femminile si è rivelato uno strumento di emancipazione e anche un mezzo per portare alla luce un diverso orientamento sessuale. Molte pugili conosciute durante la mia esperienza come pugile dilettante, sono omosessuali dichiarate. Poche volte però ho incontrato donne che intraprendono tale carriera sperando nel riscatto sociale o nel guadagno, ciò è dimostrato dalle borse ricevute dalle professioniste per titoli di grande livello come WBA, WBO, WBC, IBF; borse nettamente misere rispetto a quelle ricevute dai colleghi maschi. Ci sono ancora molte sfide da affrontare e traguardi da raggiungere. C’è bisogno di una educazione al femminile dentro le palestre di pugilato che vada oltre il maschilismo di cui sono impregnate, rispetto al quale non è sufficiente statuire la semplice parità di diritto tra femmine e maschi. In Italia vige un forte paternalismo e le donne nelle palestre sono considerate alla stregua dei maschi con cattiva coscienza, oppure pugili di seconda categoria. Il pugilato per me, e per tante altre, è vita e famiglia, una passione nonché una valvola di sfogo, un modo di ribellarsi alle avversità trovando maggiore solidità, solidarietà ed autostima. Spesso nelle palestre di boxe si trovano donne con trascorsi famigliari devastanti, le quali cercano di trovare un proprio equilibrio psico-fisico perché hanno subìto violenze fisiche e psicologiche da parte di mariti, fidanzati, fratelli, padri e che si ribellano alla violenza e alla condizione di sottomissione in cui sono state relegate. Attraverso la mia esperienza pugilistica ho trovato il coraggio di guardarmi e riconoscermi come essere umano in continua evoluzione e non semplicemente come “donna”, “immigrata”, “italiana”, “marocchina”, “straniera”, e così via. Sul ring nessuno è altro che un pugile: tutto ciò che importa è l’intelligenza, la tecnica, la preparazione e più di tutto la passione.

 

Come venne accolta la boxe femminile

 

Molti concetti sono stati definiti nel tempo. Hanno preso una loro forma con l’evoluzione della società. Quando nel dicembre del 1993 la federazione internazionale autorizzò per la prima volta i combattimenti tra donne, sulla prima pagina del Corriere della sera intervenne Gianna Schelotto, saggista, psicoterapeuta, deputata e senatrice del PDS. Una donna progressista che trent’anni fa avvertiva la svolta come una cosa che non mi sembra seria, anzi come una notizia che mi procura un’istintiva sensazione di ripulsa, come istintiva e negativa fu la mia posizione quando, tempo fa, si cominciò a parlare di servizio militare femminile

Schelotto sosteneva che questa ventata di novità, questa spinta al rilancio di uno sport probabilmente in declino era il solito equivoco sull’eguaglianza e sulla parità fra l’uomo e la donna. Come se filtrasse un sottile e subdolo messaggio: se la volete, questa parità, prendetevela in tutti campi, anche i più rischiosi. Non condivido questo ricorso all’aggressività femminile per scopi commerciali: da sempre due donne in lotta fra loro hanno il potere di esaltare la maschilità, di favorire la ricerca dell’eccitazione da parte del maschio. La donna non ha bisogno di scontrarsi con un’altra donna per mostrare la propria forza. La boxe resti pure territorio dei maschi

 

The Times They Are a-Changin’. Dove eravamo e dove siamo. Lo spirito dei tempi era tale che nelle pagine interne del Corriere della sera Claudio Colombo scriveva quello stesso giorno: Che futuro reale potrà avere la boxe femminile? Azzardiamo una risposta: nessun futuro. E per più di un motivo. Il primo: non esiste una base di praticanti tale da produrre una effettiva necessità di inquadramento. Il secondo: l’inutilità di un progetto che contrasta con le conoscenze della medicina. Il terzo: la posizione del Cio, che già considera la boxe come sport a rischio e che da tempo sta valutando l’opportunità di confermarne lo status di disciplina olimpica. Tranquilli, la boxe resterà così come è fatta: discussa e discutibile, sempre sul filo del k.o., inguaribilmente maschile e maschilista. Lo dice la cronaca, lo conferma la storia

 

Ma stava cominciando a soffiare nella società il vento di Thelma e Louise, il film che suggeriva parole e pose per una ipotesi di passaggio dal post-femminismo all’anti-sessismo, con qualche motivo di smarrimento e alcune spaccature tra donne di generazioni e di culture differenti. Francesca Neri: «Amo lo sport perché in molti casi ha abbattuto distinzioni fittizie tra uomo e donna. Non tutte le femmine sono Biancaneve». Deborah Compagnoni: «Non credo sia un bello spettacolo vedere due donne che si picchiano: a me, come spettatrice, darebbe fastidio». Diana Bianchedi: «Mi piace l’idea. La boxe non è così diversa dalla scherma, dove conta l’aggressività ma anche l’intelligenza, la tattica, la freddezza». Carla Fracci: «Una stortura della morale femminile, una manifestazione del cattivo gusto». Laura Biagiotti: «Farsi del male per vincere apparteneva a epoche passate, quelle in cui le donne venivano trascinate per i capelli dagli uomini primitivi. Il pugilato come il culturismo snatura il corpo femminile per il quale nel ‘500 erano stati fatti degli studi sulle misure auree». Carmen Covito: «Letterariamente mi piacerebbe approfondire quali sono le motivazioni che spingono una donna a mettere i guantoni. Spero possa diventare un vero sport e non rimanga un’attrazione più o meno da baraccone. Solo in questo caso le donne potrebbero considerarlo come una vittoria». Sara Simeoni: «Se avessi una figlia non vorrei mai che facesse pugilato. Non credo che per le donne sia una gran conquista, non credo che il nostro sesso debba sentirsi sminuito nel non fare tutti i lavori e gli sport e che toccano agli uomini. La parità non è fare le stesse cose ma avere le stesse possibilità». 

 


il libro | Solo come un pugile sul ring, di Dario Torromeo (Absolutely Free) 

letture un estratto dall’introduzione  Non è necessario finire al tappeto per sentirsi l’uomo più solo del mondo. Spesso basta salire su un ring per avvertire questa sensazione. Perché ogni volta che si scavalcano quelle corde, comincia una nuova vita, sai che devi mettere in gioco tutto te stesso. Sai che c’è una sola persona che può gestire presente e futuro. E quella persona sei tu. Solo era Muhammad Ali, quando si confrontava con la vita. Portava sulle spalle il Bastardo, il Parkinson gli aveva tolto anche la luce di quegli occhi che un tempo urlavano la gioia di vivere. Sola era Christine, la ragazzina keniota diventata mamma a dodici anni. La boxe le ha regalato una speranza, ma non le ha tolto quel senso di solitudine a cui la privazione di un’infanzia normale l’ha consegnata. Solo era George Chuvalo. Sul ring si batteva come un leone, non aveva paura di niente e di nessuno. Finita la carriera, come troppo spesso accade, aveva scoperto quanto potesse essere cattivo il mondo lontano dalle sedici corde. Due figli morti di overdose, un terzo suicida. Come la moglie. La vita non perdona, mai. Queste e altre storie riempiono il libro. 

La solitudine è protagonista di molti racconti, non certo di tutti. Perché la boxe a volte produce dolore, ma in tante occasioni regala gioia infinita. Sa offrire possibilità a chi altrimenti non ne avrebbe mai avuta una. La vita, scrive Joyce Carol Oates, è un una metafora della boxe.

 In chiusura, il racconto che ho scritto ispirandomi a momenti di verità. Fiction e realtà si fondono per dare vita a un finale di speranza. Il perdono rimuove la paura, è il titolo dell’ultima storia. In un periodo in cui sembra che si viva solo di violenza, egoismi ed esasperazioni, è un messaggio di pace portato da chi ha sofferto e visto la morte negli occhi. L’uomo deve essere capace di perdonare, perché solo così può liberarsi da ogni angoscia e riuscire a non essere più solo. Neppure sul ring.

– di dario torromeo, Solo come un pugile sul ring (per l’acquisto online)


 

Donne, vittorie e altri sorpassi

 

La squadra italiana per Tokyo è arrivata a 308 qualificati. Gli uomini sono 156 e le donne 152. I pass ottenuti a titolo individuale sono 74 e in sette sport su quindici la maggioranza è femminile. Nella vela sono 5 a 4, nella canoa 2 a 1, nel pentathlon moderno 2 a 0, nel tennistavolo 1 a 0, nel judo 1 a 0, nel pugilato 3 a 0 (e fatalmente nella ginnastica ritmica 2 a 0). C’è un pareggio nel tiro a volo (2-2), gli uomini sono in maggioranza nell’arrampicata sportiva (2 a 1), nella ginnastica artistica (2 a 0), nel karate (3 a 1), nello skateboard (2 a 1) e di un filo nei due sport olimpici principali, il nuoto (10 a 9) e l’atletica (10 a 8). 

S’è qualificata la Nazionale di softball e quella di baseball no. C’è la pallavolo (anche tra gli uomini) e proprio ieri s’è qualificata la Nazionale femminile di basket 3×3, con un canestro a tre secondi dalla fine contro l’Ungheria di Rae Lin D’Alie, nata nei paraggi di Milwaukee, nonni della provincia di Salerno. Di cognome facevano D’Elia, ma all’anagrafe hanno fatto i creativi. D’Alie era già stata la trascinatrice dell’Italia ai Mondiali vinti tre anni fa, quando si presentò alla manifestazione anche come autrice dell’inno. Lo aveva registrato sullo smartphone lo aveva fatto sentire al segretario generale della FIBA, Patrick Baumann. 

 

Il dibattito sullo sport femminile durante il fascismo: “Giocate a basket”

 

È curioso che la qualificazione del basket da playground sia concomitante con l’impresa delle pugili. In piena età fascista, quando lo slogan della casa sosteneva che la donna fosse al mondo «per obbedire, badare alla casa, mettere al mondo figli», sulle pagine de Il Littoriale intervenne Bruno Zauli, futuro presidente della federazione atletica leggera, vicepresidente del comitato esecutivo di Roma 1960, commissario straordinario in federcalcio. Ebbene, il 30 dicembre 1930 in prima pagina Zauli si prese la libertà di chiedere una educazione sportiva per le donne del paese, indicando proprio nella pallacanestro l’attività ideale per la massa femminile, che ha bisogno – scrisse – di essere curata nella costituzione fisica, onde arginare quei gravi fatti di impoverimento organico, che sono purtroppo le stigmate sempre più accentuate del modernismo. Bisogna dunque risolvere anche questo problema della educazione fisica della Donna, specialmente nel periodo del suo maggior sviluppo organico; si fa molto per le bambine e bisogna far molto anche per le giovanette. La via maestra è quella dello sport. I più completi e idonei per la massa femminile sono il nuoto, la pallacanestro, la ginnastica sportiva. Non si potrà discutere del primo fino a quando l’Italia non avrà raggiunto la dotazione sufficiente di piscine per ospitare le schiere dei nuotatori e delle nuotatrici. La ginnastica sportiva merita invece fin da ora la massima attenzione. Vi è infine il giuoco della Pallacanestro, che sembra quasi inventato da un’accademia di tecnici, per le grandi virtù educative che esso racchiude. È un giuoco completo: il lavoro muscolare è perfettamente distribuito sulle varie sezioni del corpo, mentre l’attività circolatoria e respiratoria vengono sollecitate nel miglior grado possibile, senza incorrere in eccessi di fatica. Le azioni sono vivacissime, tecniche, eleganti. Che si potrebbe desiderare di più per realizzare una educazione fisica in grande stile della gioventù femminile italiana? Le virtù tecniche, agonistiche, sanitarie della pallacanestro formano l’optimum desiderabile, perché su di esso si fermi l’attenzione dei dirigenti non solo sportivi, ma politici. È necessario che il CONI prenda molto a cuore questo problema – che in passato non è stato risolto, né curato – perché esso nella vita sociale della nazione è molto più importante di qualsiasi problema olimpionico

 

Erano giorni in cui la maggioranza si opponeva alla pratica dell’atletica da parte delle donne. Già il 19 dicembre Zauli si era esposto scrivendo: Ripeterò ai nemici dell’atletismo femminile che nessuno si è mai sognato di dipingere un quadro della Donna italiana con un disco in una mano e un giavellotto nell’altra. Questa esageratissima visione è stata creata dagli anti-femministi sportivi per proprio uso e consumo, ma non si è mai affacciata alla mente di alcun gerente responsabile dello sport e della educazione fisica nazionale. Per giudicare in merito bisogna appellarsi al grado della moderna civiltà, nella quale si è consentito alla donna di entrare in qualsiasi campo di attività umana, fatta eccezione per l’esercito militante e le cariche politiche (almeno in Italia). E come non vi è ragione per vietare a una donna intelligente l’ingresso nelle Università, così non vi è ragione per vietare a una donna fisicamente forte l’ingresso nello Stadio. La virtù ha diritto di farsi strada. Non vi è alcun motivo serio per impedire a Vittorina Vivenza di lanciare il disco. Beata lei che può farlo, mentre la grandissima maggioranza delle donne e molti uomini non sono capaci di tale sforzo. Se abbiamo la fortuna di possedere un gruppo di donne fisicamente forti, perché dobbiamo virtualmente sopprimerlo? Sarebbe ridicolo discutere la possibile sterilità della stirpe attraverso l’atletismo femminile. Altrettanto ridicolo parlare di allontanamento dalle missioni familiari. Quanta cagnara hanno sollevato in Italia cento ragazze dai garretti solidi e dal cuore forte

Zauli affrontò finanche un tema rimasto a lungo un tabù: lo sport e il ciclo mestruale. 

Si lasci pure che le donne entrino nello stadio: non perderanno per questo quei caratteri femminili che la natura ha loro imposto e che esse dovranno subire, finché vivrà la specie. Avremo così che il valore tecnico di una qualunque campionessa potrà essere alterato da fenomeni perfettamente fisiologici; vedremo così una campionessa idonea e preparata perdere la gara e il titolo, sol perché il giorno della competizione, sfortunatamente, le leggi della natura hanno minorato la sua efficienza. Sarà forse inutile aggiungere che il matrimonio stronca addirittura la carriera della più brillante campionessa. Tutto quello che ho scritto vale a giustificare l’esistenza di un atletismo femminile, senza che esso provochi alcun disastro sociale. Ma con l’atletismo – riservato a un nucleo strettissimo di donne fisicamente superiori alla norma – non si risolve il problema della educazione fisica femminile, che è non meno importante di quello maschile. Bisogna preoccuparsi della massa e non degli elementi di eccezione.

 

Supremazie e primati femminili 

 

Quasi un secolo dopo Zauli, secondo l’ultimo dossier Istat-CONI, le donne che fanno sport in modo continuativo sono il 29.3%, sebbene dispongano mediamente di 55 minuti in meno di tempo libero al giorno rispetto agli uomini. Sono le italiane che hanno scavalcato gli uomini negli sport considerati fino a poco fa solo maschili, la boxe appunto o anche il rugby, nel quale la Nazionale femminile è la numero 7 al mondo. Quella maschile galleggia al numero 15 con le sue ripetute sconfitte nel Sei Nazioni. Le donne sono state a lungo il traino del tennis prima del Rinascimento di Berrettini-Sinner-Sonego-Musetti. In bici Fabiana Luperini è passata sullo Zoncolan prima di Gilberto Simoni e Ivan Basso. In mare Arianna Bridi alla Capri-Napoli ha battuto gli uomini. In piscina Novella Calligaris ha vinto una medaglia ai Mondiali e ai Giochi prima di Battistelli e Sacchi.  Le ragazze hanno due record del mondo di nuoto (Pellegrini e Pilato) contro zero degli uomini. In pista Ondina Valla è stata eccellenza olimpica prima di Livio Berruti, oggi un primato mondiale (Under 20) ce l’ha Larissa Iapichino. Sull’erba le ragazze del calcio sono andate agli ultimi Mondiali e gli uomini no. Sulla neve e sul ghiaccio, agli ultimi Giochi invernali in Corea, hanno vinto con Arianna Fontana, Sofia Goggia e Michela Moioli tre ori da sole contro zero. Ed è femminile l’Italia che più include nello sport, come dimostrano la Nazionale di atletica, quella di pallavolo e il movimento dell’hockey su prato, da ieri con la sua squadra agli Europei. Uno sport che fa reclutamento nelle scuole con lo ius soli sportivo tra i figli di chi è arrivato da India, Pakistan, Sri Lanka. Lo stesso ius soli introdotto dalla federazione pugilato. Certe volte sul ring si sale per un pugno di dollari, altre volte per un pugno e basta.

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