Ode alla cabina telefonica smantellata dal Poggio e a tutte le altre

  OGGETTI DI SCENA

La cabina telefonica del Poggio

 

Una volta per altri motivi capitò di scoprire che l’ultima cabina telefonica in territorio italiano prima di passare il confine della Valle Aurina si trova a 1.600 metri d’altezza, in località Kasern, Predoi, dove l’economia locale si ingrossa soprattutto producendo bambole e decorazioni per Natale. Piccoli oggetti antichi fatti con piccoli gesti rari, uguali a quello di infilare una moneta in un telefono, azione fatalmente perduta nell’Italia che ha 80 milioni di schede sim attive.

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni fece sapere tempo fa che nel 2021 erano partite in tutto 118 chiamate dai telefoni in strada, appena tre verso un numero d’emergenza. Erano diventati in tutta evidenza superflui. 

Di tutte quelle cabine bisognava far qualcosa e qualcosa voleva dire sbarazzarsene, farle sparire dalla circolazione come i vagoni di terza classe. Andavano smantellati sedicimila pezzi di antiquariato nei quali ci siamo rinchiusi per anni a partire dal 1952, specialmente d’estate, quando le vacanze si chiamavano ancora villeggiatura, le mamme portavano i bambini al mare, molti papà restavano in città al lavoro, la sera c’era tutto il paese in fila con i gettoni in mano. In qualche altro caso era una fidanzata che spariva, andava fuori con i genitori, alcuni le deportavano nelle seconde case per due mesi, ciao amore ci vediamo a settembre però ti chiamo. Non è vero. Non chiamava. Una sera la fila era troppo lunga, un’altra sera il gelato si scioglieva, così si scioglievano pure gli amori a distanza, quasi sempre si faceva viva nell’unico momento in cui lui s’era convinto a non aspettare, ma sì, scendo un attimo a comprare una birra. 

 

 

Dentro le cornette delle cabine telefoniche è passata la piccola grande storia dell’Italia, quella leggera e quella più drammatica, le bugie di qualche amore clandestino, le telefonate anonime per scherzo, le rivendicazioni dei terroristi ai centralini dei giornali.

Sul suo sito internet, la Tim pubblica una mappa che permette di localizzare il telefono pubblico più vicino: le ultime cabine rimaste in zona. A Positano per esempio ne hanno lasciate otto, sette sono dentro un negozio e una in piazza dei Mulini. A Portofino ce n’è una. D’altra parte non è che vai a Positano o Portofino e fai la fila per chiamare a casa. A Milano Marittima zero, a Rimini centoventisei. Discriminazioni. Questa cose delle cabine telefoniche è stata a lungo un’ossessione, prima che tutti questi pensieri trovassero una forma qui con un’altra scusa. Insomma pare che prima o poi le toglieranno tutte, tranne quelle negli ospedali con almeno 10 posti letto, in qualche caserma, nelle carceri e nei rifugi di montagna. Così, oggi Clark Kent non saprebbe dove andare a spogliarsi per diventare Superman, Noodles on potrebbe chiamare Fat Moe mentre chiude la saracinesca del locale, ma soprattutto i ciclisti della Milano-Sanremo non hanno visto che il Poggio era finito e stava per iniziare la discesa. 

Una delle cabine smantellate stava là, in cima alla salita che spesso decide il Mondiale di primavera. È un oggetto che da tempo tormenta il funambolico Alexandre Roos, prima firma del ciclismo su L’Équipe. ‘Sta cabina ogni tanto spuntava tra le righe dei suoi pezzi prodigiosi. Finché stavolta s’è dato anima e coraggio. È andato. Ha scoperto che non c’è più e ne ha scritto qui – parlando di turisti dai volti stanchi come sedie di plastica e di grappa che ha da tempo sostituito il caffè. 

Per i cicloturisti – dice – la vetta del Poggio è un luogo sacro, ma pure un luogo ordinario, quello delle loro gioie e dei loro dolori, mentre tutte le attività agricole del settore crollano contemporaneamente sulle colline liguri. Pochi si commuovono per la scomparsa della cabina telefonica, smantellata l’estate scorsa nell’indifferenza, ha scritto. 

Dalle chiacchiere fatte al bar emerge tutta una serie di ragioni, dai lavori in Piazza Libertà alle preoccupazioni per la sicurezza, perché la cabina in cima impediva la visibilità nella svolta verso sinistra. Un oggetto ordinario e banale che faceva parte della nostra vita e che tanto amavamo lo definisce Roos. Il signor Antonio che gestisce un negozio di alimentari in piazza conviene con lui.

Dietro il bancone di mortadella e formaggi, in fondo a due file strette di carta igienica, melanzane e scatolette di pomodori, mostra un po’ di compassione sottolinea Roos quando quello accetta di dirgli che era una cosa storica, era bellissima, era il simbolo della Milano-Sanremo, il traguardo prima di iniziare la discesa, il luogo della folle speranza o il cimitero delle ambizioni. Chi scollinava per primo lassù, aveva gli ultimi 3 km da fare tra discesa e rettilineo, confidando di acchiappare o non farsi prendere, in un caso o nell’altro il momento più ansiogeno dell’anno, come in quei sogni nei quali insegui o sei inseguiti, urli e non esce la voce. 

Foto vista su L’Equipe

Questa attrazione per la vecchia cabina telefonica Roos non la sa spiegare, in fondo – dice – non era nemmeno bella, come Elisa nella canzone di Battiato e Alice. Anzi, a dirla tutta, era proprio bruttarella con i vetri sporchi, i mozziconi di sigaretta che la circondavano, ma non importava, sembrava parte del paesaggio una volta all’anno

Roos ha fatto qualche telefonata per scoprire chi era responsabile di questo sacrilegio” e gli hanno detto che la cabina del Poggio non si è salvata dall’operazione di smantellamento, perché nessuno aveva pensato di preservarla, di metterla in un museo, di offrirla a Eddy Merckx. Siamo stati bombardati da decisioni normative e discorsi sullo sviluppo forzato. Volevano tranquillizzarci, la cabina aveva la lamiera rotta, tutto è stato riciclato, nel rispetto delle norme ambientali: come se immaginarla in lattine ci consolasse. Tra vent’anni, quando ne parleremo, saremo presi per pazzi, nostalgici di un mondo che non c’è più

Forse anche prima di vent’anni. Certe ossessioni non si spiegano. Neppure l’ansia che prende alla gola negli ultimi 10km della Sanremo. È fuori dal tempo la cabina telefonica che hanno montato a Ōtsuchi, in Giappone. Non funziona, non si possono far telefonate, ci si va dal 2010 per fingere di parlare con i propri morti. Lo chiamano il telefono del vento, nero, senza fili, sta su una mensola accanto a un quaderno, una specie di registro del lutto. Anche in Colorado, ad Aspen, ne hanno montato uno simile, sul tronco di un albero, lì si può non parlare con i morti in pandemia.

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