La prima Africa che ha domato le Fiandre

Non smetteremo di esplorare

T. S. Eliot

 

Biniam Girmay Hailu, 21 anni, eritreo, ha vinto la Gand-Wevelgem battendo allo sprint in una volata a quattro Christophe Laporte, Dries Van Gestel e Jasper Stuyven. Un francese e due belgi: due Paesi dell’età classica, con 53 successi complessivi nell’albo d’oro.

È la prima volta che un corridore africano vince sulle strade delle Classiche del Nord. Questa è la sua storia. La sua e delle biciclette nella sua nazione. 

 

DI ALESSANDRA GIARDINI

 

  ▻  Sono partiti da Ypres, perché è vero che è la Gand-Wevelgem ma il ciclismo fa un po’ come gli pare. Per dire, la Parigi-Roubaix non sfiora neanche Parigi: parte da Compiègne, che è 85 chilometri più a nord, dove i francesi erano soliti firmare gli armistizi, quello del 1918 che chiuse la Grande Guerra e quello del ‘40 fra il maresciallo Pétain e Adolf Hitler, che però era soltanto il principio. Insomma sono partiti da Ypres, con un sole mai visto e la gente ad affollare i marciapiedi, le donne con le gambe bianchissime e nude, i bambini biondi con i sandali, e sembrava il Tour più che una classica del nord. Sono partiti da Ypres, e sono finiti dritti nella storia: Biniam Girmay Hailu è il primo corridore dell’Africa nera a vincere una classica, spalancando la porta a un mondo nuovo. 

Bini non ha ancora ventidue anni, li compirà sabato, alla vigilia del Fiandre: è poco più vecchio di Eddy Merckx quando vinse la Gand-Wevelgem per la prima volta. Solo venerdì sera la sua squadra ha deciso di portarlo, non conosceva neanche il percorso. «Ma questo cambia il mio futuro». Oh, se è per questo non soltanto il suo. La Storia è qualcosa che va oltre le piccole vicende di ognuno di noi. Bini non conosceva il percorso, e non sappiamo se correndo ha notato tutti quei cimiteri, quelle lapidi in fila, tutte uguali: erano ragazzi della sua età, e arrivarono in Belgio per morire. Proprio a Ypres, dov’è partita la corsa, per la prima volta nell’aprile del 1915 i tedeschi usarono il gas di cloro: in pochi minuti uccise migliaia di soldati, quelli più fortunati, gli altri furono condannati a una morte più lenta e feroce. 

Girmay la guerra la conosce bene: è nato ad Asmara, che qualcuno chiama ancora piccola Roma, e in qualcosa somiglia all’Italia dei primi anni Cinquanta. Sono stati gli italiani a portare le prime bici in Eritrea ma se state pensando che Mussolini ha fatto anche cose buone, beh, non è stato lui. Era il 1898 e le bici servivano per portare più velocemente la posta. Nel 1936 nacquero la federazione e le prime gare organizzate, ma agli eritrei colonizzati non era permesso partecipare. Nel 1939 il regime fascista pensò bene di rimuovere quel divieto, per far vedere agli africani la forza della razza italica. Però la prima corsa aperta a tutti la vinse uno di loro, e addio mito della superiorità dei colonizzatori. Alla fine della guerra, nel ‘46, il Giro di Eritrea fu la prima corsa a tappe dell’Africa. Il ciclismo era già diventato lo sport nazionale. Ancora oggi le strade sono piene di biciclette, non solo all’Asmara, e i ragazzi che cominciano a correre sono tantissimi, soprattutto nelle regioni centrali, quelle con il clima più dolce. 

«In molte gare sono l’unico nero, questa vittoria è un grande momento per tutta l’Africa», ha detto Bini prima di spiegare che non vorrebbe correre il Giro delle Fiandre, domenica prossima. Vuole tornare ad Asmara: sono tre mesi che non vede sua moglie e la sua bambina, Liela, che ha appena compiuto un anno. In Europa Bini si è trasferito da solo: l’anno scorso abitava a Lucca, da pochi mesi si è spostato a San Marino con i suoi connazionali Natnael Berhane, Amanuel Ghebreigzabhier e Natnael Tesfatsion. Ogni giorno, cadesse il mondo, passa un’ora al telefono con la sua mamma.

Bini giocava a pallone, come tanti, ma poi ha seguito il fratello maggiore, che correva in bici. Il papà, che fa il falegname, gli comprò una Trek, e Bini si sentiva in debito. «Costava tantissimo. Io andavo ad aiutarlo in falegnameria, dieci chilometri ad andare e dieci a tornare, sono state le prime corse». 

In Eritrea ci si può allenare a 2.500 metri di altitudine, un vantaggio che gli atleti cominciano a sfruttare. Nel 2015 due eritrei hanno corso per la prima volta il Tour. Erano Merhawi Kudus e Daniel Teklehaimanot, che nella prima settimana scattava su tutti i cavalcavia per raccogliere punti per la maglia a pois: quando riuscì a indossarla, in patria fu una follia.

Poi è arrivato Girmay: non aveva ancora diciotto anni quando si è trasferito in Svizzera, al World Cycling Center di Aigle, il centro dell’Uci per i talenti che vengono dai paesi emergenti. Ne aveva compiuti diciotto da poco quando batté Remco Evenepoel in una volata ormai diventata celebre, sempre in Belgio, nella prima tappa dell’Aubel-Thimister-Stavelot. Il suo talento è stato evidente fin dall’inizio, eppure quando era ora di firmare un contratto, lui rimaneva sempre in fondo alla lista. Oggi corre per la belga Intermarché-Wanty-Gobert, e dice che è come una famiglia. L’anno scorso, ancora nelle Fiandre, è diventato il primo corridore dell’Africa nera a salire su un podio mondiale, argento fra gli Under 23 alle spalle di Filippo Baroncini. Il prossimo grande obiettivo è il Giro, che sarà la sua prima corsa a tappe di tre settimane. «A casa mia il ciclismo è una religione, impazziscono per il Giro». 

Va bene in salita, è forte a cronometro e veloce allo sprint, ma il sogno di Bini è la Parigi-Roubaix. Confessa che il suo vero talento è la calma, «non so cosa sia la pressione». Bernard Hinault è stato fra i primi a immaginare per lui un futuro da campione. E quando il Mondiale del 2025 è stato assegnato al Ruanda, qualcuno ha pensato che sarebbe proprio bello che vincesse un africano nero. «Quando corro voglio vincere ma nel mio paese le persone che si vantano non piacciono a nessuno». Improvvisamente il 2025 sembra quasi troppo lontano per Bini.

 

      mappe | Un viaggiatore in Eritrea

Questo piccolo paese, tra i più poveri del mondo, possiede un esercito di centomila giovani, relativamente colti, dei quali non sa che fare. Il paese non ha industrie, l’agricoltura è in abbandono, le città in rovina, le strade distrutte. Centomila soldati si svegliano ogni mattina senza saper che fare, e soprattutto senza niente da mangiare. Ma la sorte dei loro colleghi e fratelli in borghese non è molto diversa. Basta girare per Asmara all’ora di pranzo. I funzionari delle poche istituzioni esistenti in uno stato così giovane vanno a mangiare un boccone nei bar e nei ristoranti del quartiere. Ma le folle dei giovani non sanno dove andare: non lavorano, non hanno un soldo. Girano, guardano le vetrine, sostano agli angoli delle strade, siedendo sulle panchine oziosi e affamati di ryszard kapuściński

 

  | coriandoli Dicono di Girmay

  ◇  Marco Bonarrigo, Corriere della sera: Fino a ieri l’Eritrea – in gravi difficoltà economiche e sull’orlo del conflitto con l’Etiopia – era nazione di maratoneti affermati e pedalatori emergenti. Il trionfo di Girmay dimostra che riducendo il divario economico che tiene lontani i ciclisti dell’Africa nera dal professionismo, le loro qualità atletiche vengono fuori spinte dalla passione di una nazione che, dai tempi della sciagurata dominazione italiana, non è mai venuta meno.

  ◇  Cosimo Cito, la Repubblica: L’Africa è arrivata a giocarsela 109 anni dopo Ali Neffati, tunisino, che con un fez sulla testa s’era presentato a Parigi per il via del Tour. Robbie Hunter e Daryl Impey avevano vinto tappe alla Grande Boucle, sudafricani, bianchi. Girmay è nero, figlio dell’Africa profonda, poverissime origini

  ◇  Giulia Zonca, la Stampa: Un tutt’uno con la sua bicicletta in un traguardo che cambia il ciclismo. Adesso lui diventa il modello per chi lo imiterà. All’inizio il ciclismo internazionale ha faticato a inquadrarlo perché si era iscritto nelle liste con tre nomi diversi, in una delle versioni era Hailu, il suo secondo nome che diventa anche riconoscimento di famiglia: è così che è stato battezzato il nono ed è così che lo chiamano a casa dove lo aspettano la moglie e la figlia di un anno

  ◇  Gian Paolo Porreca, il Mattino: Ha controfirmato un altro perentorio destino di ciclismo e sferzato i nostri luoghi comuni. Noi che del ciclismo africano, banalmente, ancora ricordavamo Abdelkader Zaaf e le sue baruffe con Coppi, anni 50, senza renderci conto che il tempo andava cambiando. Bravo Girmay, a donarci grazie al ciclismo un segnale inatteso di Pasqua anticipata, si risorge dalle scorie del passato con uno sprint nuovo, e quel dorsale bellissimo, 36: tre volte tre, ultrafatale

  ◇  Filippo Lorenzon, Bici Pro: Il mondo del pedale sta iniziando a vedere i suoi frutti di quella globalizzazione iniziata ormai una quindicina di anni fa quando si parlava di ProTour

  ◇  Sergio Arcobelli, il Messaggero: Potrà cambiare il paradigma delle due ruote ed essere un esempio per milioni di persone. Convincendo sempre di più le squadre a guardare a un continente che, piano piano, sta crescendo in maniera esponenziale.

  ◇  Pier Augusto Stagi, il Giornale: È il simbolo di un Continente, di una nazione che sta sfornando corridori importanti, grazie anche a corse come la Tropicale Amissa Bongo o il Tour de Rwanda. Talento assoluto, Biniam è un passista veloce che non disdegna le salite, e dopo essere cresciuto nel Centro Mondiale del Ciclismo, oggi sogna di vincere una tappa al Giro d’Italia

  ◇  Davide Cassani, la Gazzetta dello sport: Se gli africani dominano in tutte le specialità di durata dell’atletica leggera, perché non sono altrettanto c28ompetitivi nel ciclismo su strada? Semplice, perché in Africa di biciclette ce ne sono sempre state poche. Hanno tutto per vincere qualsiasi tipo di corsa. Testa, fisico e voglia di arrivare. Il ciclismo è sport di fatica, per emergere bisogna anche avere fame, cioè volontà. E quella in alcuni corridori italiani, manca.

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