Lo sport non racconta bugie: il pensiero di Jean-Luc Godard su tennis, calcio e star

Jean-Luc Godard era seduto a bordo di una piscina, fumava un sigaro e parlava di calcio. Notre Musique, riflessione sulla violenza, la morale, la guerra, aveva avuto la sua première mondiale. A metà film c’è un riferimento alla partita vinta dall’Ungheria a Wembley contro l’Inghilterra per 6-3, nel novembre del 1953. Ai suoi ospiti, Godard spiegava la bellezza di quella Nazionale rimasta incompiuta, senza titolo, come la scoperta della pittura moderna”. L’unica formazione che gli pareva si fosse poi avvicinata a quel livello, era stata l’Ajax durante l’era Cruyff, perché tutti giocavano sia in attacco sia in difesa, era come il free jazz”.

 

Jean-Luc Godard è morto a 92 anni, seguiva tutti gli sport, era un buon tennista. Seguiva con grande attenzione anche la tecnica del racconto dello sport, e del racconto per immagini.  

I critici che scrivono per Llandudno Jet Set hanno trovato che “cinema d’avanguardia e calcio sono facce diverse della stessa medaglia. Lo dimostra il fatto che Werner Herzog scrisse la sceneggiatura di Aguirre furore di Dio in due giorni e mezzo, in gran parte durante un viaggio in autobus di 200 miglia (320 km) con la sua squadra di calcio. La leggenda vuole che un paio di compagni di squadra, ubriachi dopo la vittoria, si siano sentiti male fino a vomitare – a vomitare sulle sue pagine – e che Herzog le abbia gettate dal finestrino, senza mai piu ricordare cosa ci fosse scritto. 

Ventuno anni fa L’Équipe fece una lunga intervista a Godard e l’ha ripubblicata in queste ore. È probabilmente la cosa più bella che si trova in giro su qualunque giornale al mondo oggi. O forse nell’ultimo mese. È un’intervista meravigliosa. Slalom l’ha letta, l’ha riasssunta e ve ne propone qualche passaggio.

 

  ➣  Godard, lo sport per lei è un vecchio amore?

«Ne ho praticato molto durante l’adolescenza. Mi sono allenato in modo naturale, non trovavo grosse differenze tra corsa, calcio o sci. Mi piaceva fare tutto. Il tennis è un amore ancora più antico. Dev’essere un’eredità di mia madre. Leggevo le cronache su L’Ilustration. Dopo ci siamo trasferiti a Parigi, mi sono iscritto allo Stade Français, sezione basket, ma ho subito capito che era un altro mondo, che per brillare bisognava fare solo quello. Ci ho rinunciato. Da quindici anni ho ripreso a fare sport, per me stesso, per la mia salute. Sono tornato al tennis. Ho anche iniziato a guardarlo di nuovo con più attenzione. McEnroe e Mecir mi sono sempre piaciuti molto. Mi è piaciuto anche Jim Courier. Come rimproverargli di leggere un libro al cambio di campo? Sampras, sì, bravo, ma preferisco Pancho Gonzales. Mi piace anche il ciclismo, il calcio meno, mi piace l’atletica. Non la Formula 1».

  ➣  Come mai ?

«È troppo legata al motore. La gente ama l’automobilismo e si lamenta degli ingorghi nel traffico. Lo trovo paradossale. Se amiamo una cosa, amiamo pure l’altra. A me non mi piacciono gli ingorghi, quindi non mi piacciono le macchine. Inoltre, tutti quei ragazzi coperti di pubblicità dalla testa ai piedi, che scuotono bottiglie di champagne, li trovo volgari. Le cerimonie del podio sono simili alle cerimonie del vitello d’oro. E poi si trovano CO2 e il figlio di Bush». 

  ➣  Anche un personaggio come Ayrton Senna non le è piaciuto?

«Oh! Quando si parla di macchine, sono rimasto a Fangio. Ero appassionato dei duelli Sommer-Wmille, delle vecchie Mille Miglia. È un mondo scomparso, che abbiamo tramandato di bocca in bocca, che abbiamo ascoltato alla radio. Un po’ alla volta, mi sono innamorato del calcio anch’io. Oggi possiamo dire che se il comunismo è mai esistito, è stata la squadra dell’Honved Budapest a incarnarlo al meglio. Ricordo benissimo il maggiore Puskas, Kocsis testina d’oro, Czibor il gregario pazzo, il deputato Jozsef Bozsik, che fu parlamentare. Non ho mai visto una squadra che sapesse giocare così bene insieme. È vero che prendevano tanti gol, ma ne segnavano sempre più degli altri. Ho visto un documentario su Puskas: una volta è uscito a fare la spesa mentre palleggiava. Ha comprato il giornale, ha pagato, è andato dal macellaio, e la palla era ancora lì, attaccata al piede».

  ➣  Come vive lo sport oggi?

«Guardo poche cose in televisione, ma tra quelle c’è lo sport, perché è rimasto qualcosa in cui il corpo non mente. I campioni possono essere ricoperti di contanti, possono essere filmati in modo orribile, ma sono sempre sé stessi. Sotomayor non può dire di aver saltato 2 metri e 31, se ha saltato 2 metri e 30. Perfino Tapie, quando perde in uno stadio di calcio, non può dire d’aver vinto. In altri ambiti si può dire qualsiasi cosa. La politica, il cinema, la letteratura – tutti mentono. Lo sport no».

  ➣  È per questo che il cinema di finzione si adatta male allo sport?

«La narrativa può raccontare una storia, non può spiegarla. Dovremmo filmare non solo il campione e la partita, ma anche la sera prima, la sera dopo, la fidanzata, la famiglia. Ci vorrebbero quindici ore di film. Chi lo guarderebbe, a parte Andy Warhol e me? L’unico sport che un po’ funziona è il ciclismo, durante il Tour de France, dove sono costretti a ‘restituire’ la durata dell’evento, o alla Liegi-Bastogne-Liegi per la violenza selvaggia dei paesaggi. Filmare lo sport equivale a mostrare il lavoro del corpo in continuità. Il problema è che questa priorità nella maniera di mostrare è scomparsa» .

  ➣  Anche in TV?

«Soprattutto in TV! In tv non c’è più rispetto per le cose filmate. È solo questione di programmazione e distribuzione. È pazzesco come le cose siano cambiate! Tra i Giochi di Sydney e quelli di quindici o vent’anni fa, le differenze sono enormi. Quello che mi è piaciuto ai Giochi in Australia è stato il modo in cui alcuni cameraman erano interessati ai saltatori in alto. Potevano indugiare anche quindici secondi, venti secondi su un braccio penzolante, una testa inclinata. Non hanno esitato a filmare il salto in alto prima del salto. Oggi è tutto accelerato. Si vede il salto e nient’altro. Non si aspetta, non c’è pazienza». 

  ➣  Perché questa urgenza, perché bisogna andare avanti?

«Perché sono annoiati. Non appena sono lontani dall’azione, i cameraman si annoiano, quindi ingrandiscono e si avvicinano. Non appena si avvicinano, si annoiano di nuovo, quindi riducono e si allontanano. La mia peggior nemica è Françoise Boulin, la regista televisiva del Roland-Garros! È nella sua sala di controllo, davanti a dodici schermi che non è nemmeno andata a comprare, e si destreggia da fare schifo! Cosa vuoi cogliere davanti a dodici schermi? Non vedi un’immagine, la offuschi. E poi c’è il commento».

  ➣  Cos’è che non va nel commento?

«Tutti i guai vengono da lì. Immaginate che al Roland-Garros la voce di Jean-Paul Loth esca dagli altoparlanti sparpagliati per lo stadio, durante gli scambi. Se il telespettatore sopporta ciò che il pubblico allo stadio non sosterrebbe, è perché l’immagine della partita è talmente assente, da doverle restituire una parvenza di presenza. Devi doparla. Il commento che sostituisce il tempo reale celebra il lutto dei corpi al lavoro. Il corpo è l’immagine, un’immagine muta, come una tomba. Il commentatore è il suo profanatore. Ci vieta di vivere la nostra libertà di spettatore, per quanto già ridotta».

  ➣  Come mostrerebbe allora lo sport?

(Esita.) «Prenderei un ragazzo dal Pakistan o dal Sudamerica, durante le qualificazioni. È a Parigi, non ha i mezzi, cerca un albergo, un Ibis o un Mercure. Sale in metropolitana, gioca, viene battuto. Al prossimo turno mi interesserei del suo vincitore, poi del vincitore di quest’altra partita, fino inevitabilmente a giungere alla finale. Oggi, ciò che è triste, è che tutte le partite vengono riprese allo stesso modo. Il primo turno come l’ultimo. È il regno del tutto uguale. È irritante vedere le stesse inquadrature più e più volte. Quella del giocatore che aspetta, quella del giocatore che serve. Io che sono interessato al gioco, vorrei vedere come viene preparata e tessuta tutta questa alchimia. Invece di costringermi ad andare dall’altra parte della rete, preferirei stare un po’ insieme con un solo giocatore. In tutti gli sport, lo spettatore è obbligato a seguire. Non ha scelta. Ci viene mostrato il ping pong, mai il kayak o l’arrampicata su roccia. Non ho una soluzione, ma mi piacerebbe vedere un solo giocatore alla volta, lo filmeremmo un po’ come Stendhal mostra Fabrizio a Waterloo. Non sa dove si trova. Nel nuoto è lo stesso, non sanno come riprenderlo. Dal documentario di Jean Vigo su Jean Taris, La Natation del 1931, non è stato inventato nulla di nuovo. Tra presentazioni e live, c’è sempre meno differenza. Sembra tutto uguale, tutto clonato».

  ➣  Esiste un divario troppo grande tra la realtà e la sua rappresentazione?

(Si lascia trascinare). «Quando vai a un meeting di atletica leggera, vedi pochissimo! Ci sono andato, non molto tempo fa. Al meeting di Losanna. Perché volevo vedere Gabriela Szabo. Volevo vedere come un topolino si intrufola sulla pista. L’ho scorta a malapena, ma sono stato felice di vederla. Il mio ricordo, anche parziale, è più forte di qualsiasi cosa avessi visto di lei in tv. Lo stesso per Anna Kournikova. Quando l’ho vista al Roland-Garros, sono rimasto sbalordito. In tv l’avevo presa per una russa media, tarchiata, con la stessa faccia di Boris Eltsin. Invece è davvero bella, davvero elegante. In televisione sembra un boscaiolo, mentre dal vivo è un lupo selvaggio, allampanato, un po’ smarrito. La televisione filma la stella e la sua gloria, non la persona e la sua miseria».

  ➣  Su che cosa si mente allo spettatore?

«Sulla velocità, per esempio. Un tiro di Venus Williams non ha nulla a che fare con un tiro di Martina Hingis. Ma la televisione non è in grado di mostrarlo. Di conseguenza, dimentichiamo l’essenziale, dimentichiamo i corpi. Si scaldano gli animi, ma lo spirito è assente».

Aveva diversi progetti sportivi, ma non ne ha mai realizzati. Come mai ?

«Perché le cose non si sono incastrate. Avrei dovuto girare un film sui Giochi di Los Angeles nel 1984, con Francis Ford Coppola, ma le trattative non hanno avuto successo. Ho anche discusso con Canal+, non hanno voluto».

  ➣  Ai giovani che preferiscono vedere lo sport in televisione anziché allo stadio, cosa risponde?

«Sono gusti loro. Forse gli piacciono pure gli ingorghi». 

  ➣  Hanno un argomento valido: grazie al rallentatore o al videoregistratore, la televisione permette di rivedere l’azione, di capirla meglio.

«Per motivi di studio, forse, ma supponendo che sia stato girato bene, tanto per cominciare. Ma se partecipi a uno spettacolo dal vivo, perché vuoi rivederlo? L’emozione non sarà mai la stessa. Al contrario, dovremmo essere felici di non vedere tutto, di conservare una parte del mistero, di sognare. Anche a teatro, a seconda che tu sia in seconda o ultima fila, non vedi la stessa cosa. È solo al cinema che tutti vedono più o meno la stessa cosa. Abbiamo immerso le stanze nell’oscurità e per questo abbiamo allargato gli schermi: in modo che tutti fossero posizionati allo stesso modo. È la forza della proiezione. Quel principio che la televisione ha ucciso. In televisione la proiezione è scomparsa, quindi il progetto è scomparso. C’è solo diffusione. Inoltre in televisione si filmano solo i nobili, solo i vincitori, a danno dei piccoli e dei vinti. Non vedi mai una partita di calcio della quarta divisione in tv o i tornei di tennis per ragazzi».

  ➣  L’eccellenza non viene prima di tutto?

«Non lo so. Le persone hanno il coraggio di vivere la loro vita, ma raramente di immaginarla. Vorrei guardare i più deboli, i più inesperti, imparare da loro, stargli vicino. Nel calcio è lo stesso, filmiamo solo il risultato, quello che è spettacolare. Per me ogni partita è diversa. Auxerre-Sedan non è ancora la stessa cosa di Dinamo Mosca-Juventus. Non è la stessa storia, quindi non si dovrebbe girare allo stesso modo. Gli stessi atleti finiscono per avere le stesse reazioni, le stesse espressioni di odio, le stesse quando vincono, come gli hutu che sterminano i tutsi». 

  ➣  Si può guardare lo sport senza schierarsi?

«È difficile. O siamo per l’uno o siamo per l’altro. Per me è del tutto arbitrario. Io sono più per i russi che per gli americani. Ma non so spiegare perché. Forse a causa delle disgrazie della Russia? In generale, vado sempre contro i favoriti».

  ➣  Olympia di Leni Riefenstahl è un buon film sportivo?

«È il punto di vista di una donna. Aveva mezzi grandi e nuovi. Ha filmato più a lungo del solito. Non è un capolavoro come si dice, ma è un film molto buono». 

  ➣  È un film in cui purtroppo il messaggio ha spesso la precedenza sull’estetica.

«Riefenstahl aveva a priori un legame con le idee del nazismo. Stranamente, questo a priori, ai miei occhi, è molto meno fascio di quanto ci viene imposto oggi nel 2001».

  ➣  Come mai?

«Nella Riefenstahl c’era, nonostante tutto, un grande rispetto per la scena filmata. C’era una scienza dell’inquadratura. Oggi stiamo soffocando sotto una valanga di immagini filmate. Chiunque può improvvisarsi come cameraman e pensare di fare un primo piano. In passato avevamo una scatola Kodak e scattavamo due o tre foto. C’era molta umiltà di fronte alle opportunità. Oggi non c’è più alcuna differenza tra chi possiede una videocamera e Stanley Kubrick. Ora è lo spettatore che deve fare la differenza. È ancora più necessario che abbia un minimo di spirito critico». 

  ➣  Lei dice che tutto è troppo legato al denaro. Ma quando il cinema era assoggettato ai grandi studios, quando si riduceva la libertà di creazione, i film non erano così brutti.

«Perché i capi degli studios americani erano ancora dei poeti del denaro. Lo sport moderno non appartiene ai grandi studi, appartiene agli industriali. A capo dei grandi studi c’erano degli imprenditori, di gusto non so, ma comunque di carattere. Individui che amavano il cinema. Non so se ai capi dello sport oggi piace lo sport. I campioni sono molto responsabili di questa situazione. È un ambiente molto conservatore, molto convenzionale, molto normale dopo tutto. Prima c’erano dei personaggi reali. Jean Borotra era un personaggio. Una Micheline Ostermeyer oggi è impossibile. Una campionessa che vince delle medaglie alle Olimpiadi del 1948 nel disco, nel peso, nel salto in alto, agli ostacoli, e che suona Chopin! Quando Marcel Bernard vinse il Roland-Garros nel 1946, lavorava al Quai d’Orsay. Ora c’è questa nozione del record che ha la precedenza: essere il migliore, essere il primo. Queste sono le idee infantili che dovrebbero essere analizzate».

  ➣  Ma il fatto che Beamon arrivi a 8 metri e 90 a Città del Messico, non rende il suo salto ancora più bello?

«Si capisce. La performance fa parte dello sport. È la performance che garantisce la magia permanente. Si dice che fu assistendo a un record, che il poeta Rainer Maria Rilke trovò la sua frase: La bellezza è l’inizio del terrore che siamo colpevoli di sopportare. Quello che mi preoccupa è lo sfruttamento che viene dopo, è il cinema che lo accompagna. Oggi vediamo i campioni stringere i pugni, mostrare i denti appena vincono, ma è orribile. Anche le donne iniziano a farlo».

  ➣  La rabbia della vittoria?

«L’eccitazione, sì. La rabbia della vittoria fa bene a Massu in Algeria, fa bene alle guerre, siamo lontani dallo sport. Anche Pippo Kuerten adesso ritiene opportuno farlo. Ma perché si sta piegando a tutto questo? Perché l’ha visto fare in tv, perché si sente obbligato. Da solo nel suo angolo, non l’avrebbe fatto. Questa deriva è terribile».

  ➣  I campioni mancano di personalità?

«È divertente, perché sempre più grandi personalità cercano di spersonalizzarsi. Come le star del cinema, i campioni si ritirano nei loro gusci, vivono in un circuito chiuso. Se fossi il capo del Paris-Saint-Germain, imporrei per contratto che Anelka fosse filmato a casa sua, mentre fa colazione, mentre parla con la sua ragazza. Ci sarebbe un’audience del 2%, non interesserebbe a nessuno e lo lasceremmo in pace».

  ➣  Sì, ma filmandolo rischieremmo di smitizzare il personaggio.

«Perché avere paura di smitizzare qualcuno, quando non c’è più nessun mistero? Comunque, a 200 milioni di vecchi franchi al mese, Anelka è un personaggio fuori dalla mia portata».

  ➣  Anelka non è responsabile del suo prezzo…

(Interrompe.) «Siamo sempre responsabili delle nostre azioni! Anelka potrebbe giocare a calcio per sé stesso, niente lo obbliga a firmare per il Real Madrid. Una volta che l’ha fatto, non può pretendere più di essere libero! Se firmo un contratto con Catherine Deneuve o con Sharon Stone, ho un intero esercito di avvocati e di agenti che mi cascano addosso. Non posso più fare niente. Quando firmo con Alain Delon va un po’ meglio, perché c’è ancora una certa franchezza, una stretta di mano tra noi che ha il valore di un contratto».

  ➣  A proposito dell’ultimo Mondiale vinto dalla Francia, lei ha detto: – Se avessi saputo che tutto sarebbe finito con Barthez che bacia un McDonald’s, sarei stato più diffidente. È arrabbiato?

«Quello spot l’ho trovato davvero disgustoso. Francamente, non doveva».

  ➣  Cosa pensa del comportamento di Pérec a Sydney, del suo ritiro frettoloso prima dell’inizio delle Olimpiadi?

«È stato molto divertente quello che le è successo. È la prova che questa ragazza non è normale, nel senso cioè che non appartiene alla norma. Sono stato contento che sia andata a Rostock, in quel laboratorio, con quel buffo dottor Mabuse. Questo aspetto della Germania dell’Est, portatrice di tutti i peccati del mondo, mi affascina. Conosco Rostock, lì ho filmato una bellissima atleta: Krabbe. Io avevo bisogno di una ragazza che corresse, lei era già sotto processo e aveva bisogno di amicizia e denaro».

  ➣  Proprio come gli attori, gli atleti sono costretti a durare, ma il declino è doloroso.

«Il declino della fama, sì, ma non muore nessuno. Ho visto Borotra vincere i campionati francesi indoor all’età di cinquant’anni. Si giocava su legno duro e la palla andava più veloce che a Wimbledon. Per gli attori è più facile. Il ruolo di Re Lear è ancora lì, c’è un repertorio ancora lì. Quel che è vero è che anche al cinema tolleriamo sempre meno la vecchiaia. Gabin, Simon, Delon. Dove gli atleti assomigliano agli artisti è nel fatto che vivono molto male il momento in cui devono smettere, il momento dove il sogno si ferma. Il mio unico sogno è giocare al Roland-Garros in cappotto, con le scarpe grosse, mentre fumo e leggo, forse, un testo di Fréderic Prokosh su Bill Tilden, intitolato Une Sarah Bernhardt. Fa così: “Bene! Ti dirò una cosa, ragazzo. Il tennis è più di un semplice sport. È un’arte, come il balletto. O come uno spettacolo teatrale. Quando entro in campo, mi sento come Anna Pavlova. O Adelina Patti. O Sarah Bernhardt. Vedo la rampa di fronte a me. Sento il pubblico sussurrare. Sento un brivido gelido. Vinci o muori! Ora o mai più! Questo è il momento cruciale della mia vita. Ma io sono vecchio, ragazzo, vecchio. Le mie gambe mi hanno deluso. L’ultimo atto sarà tragico? 

   Il suo sogno è davvero giocare al Roland-Garros e vincerlo?

«Ovviamente!»

intervista di benoît heimermann e jérôme bureau, l’Équipe

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