Il derby dentro Milano

  Nei giorni in cui nasceva il Milan, tra il 15 e il 18 dicembre del 1899, per convenzione il 16, la neve cadeva con insolita generosità dal cielo sull’ampia distesa della nostra città e una pioggerella minuta ma insistente, con brevi intervalli, da mattina a sera, riduceva la bianca neve in nereggiante poltiglia”.

La Domenica del Corriere, costo 10 centesimi, offriva ai suoi lettori un servizio sulla guerra anglo-boera e uno sulla riproduzione delle anguille, mentre il critico teatrale del Corriere della sera sostanzialmente stroncava il nuovissimo dramma in 4 atti di Henry Bataille, Il tuo sangue, con Ermete Zacconi ed Emma Gramatica, perché il pubblico, non molto numeroso, l’ascoltò attentamente, ma non ne poté capire né il senso, né il pregio. Che cosa abbia voluto significare l’autore con questa sua bizzarra immaginazione, nessuno seppe indovinarlo.

 

  Herbert Kilpin e i suoi amici immaginavano invece di fare del Milan Football & Cricket Club una buona replica delle associazioni sportive che nella loro Inghilterra stavano dando un senso al tempo libero. Si riunirono all’hotel Du Nord e des Anglais, firmarono un atto costitutivo, a metà gennaio erano in campo, l’anno dopo avevano già vinto lo scudetto. 

Codesto Kilpin sarebbe rimasto a lungo del tutto sconosciuto nella città dove era nato, Nottingham, e dove aveva lavorato nella fabbrica di merletti di Thomas Adams, il quale in sede offriva ai lavoratori anche un’aula scolastica, una sala da tè, una biblioteca e una cappella per pregare. Manchester era nota per il cotone, Macclesfield per la seta, Nottingham era la patria dei merletti.

Là Kilpin aveva incontrato Edoardo Bosio, un commerciante di tessuti italiano che aveva fondato il Torino Football Cricket Club e che nel vederlo giocare ogni fine settimana con il Notts Olympic, oltre che nella squadra della chiesa St Andrew’s, gli aveva offerto un lavoro in una fabbrica di seta a Torino, a patto che lo aiutasse pure con quella banda di dilettanti che si ritrovava e che non aveva una minima idea della tecnica o della tattica.

Nono figlio di un macellaio, Kilpin lasciò Nottingham nel 1891, aveva 21 anni. Solo poco tempo fa Robert Nieri, un avvocato italo-inglese di Manchester, si è incuriosito alla sua storia seguendo la traccia di un trafiletto e dedicando sette anni di ricerche a una vita scarsamente documentata, per il suo libro The Lord of Milan

 

Dopo sei anni a Torino, Kilpin si trasferì a Milano ma stanco dei viaggi, fondò una squadra per conto suo. Il Milan. Richard Williams sul Guardian ha raccontato che quando Kilpin aveva iniziato a giocare a calcio, già aveva inconsapevolmente manifestato un’attrazione per l’Italia, andando in campo con la maglia del Nottingham Garibaldi, così chiamato perché vestiva camicie rosse come quelle dei Mille. L’impresa per l’Unità d’Italia lo aveva reso popolarissimo nell’Inghilterra vittoriana, dove decine di migliaia di persone si erano radunate in occasione della sua breve visita nel Regno Unito nel 1864, organizzata da un parlamentare di Nottingham, l’industriale Charles Seely.

Kilpin giocava inizialmente da centrocampista, poi arretrò in difesa e chiuse la carriera da attaccante. Più o meno la parabola di Gennaro Scarlato. Si sarebbe ritirato nel 1907 (Kilpin, non Scarlato) dopo il terzo scudetto, avvolgendo nel mistero l’ultimo decennio della sua vita e pure le cause della morte, anche se nel libro di Nieri hanno qualche ruolo il fumo e i drink. Aveva sposato una donna italiana, Maria Capua, non avevano figli. 

Seguendo le indagini di uno dei suoi discendenti, Matt McGinn sempre per il Guardian ha potuto ricostruire qualche anno fa infanzia e adolescenza del fondatore del Milan. 

La casa fatiscente in Mansfield Road – ha raccontato – è disabitata da anni. L’insegna del negozio del padre una volta era blu. La vernice si sta staccando.

È una strada oggi di rosticcerie, pub e agenzie di scommesse. 

 

  In disaccordo sul tesseramento degli stranieri, dal Milan Football and Cricket Club si staccarono alcuni soci e se ne andarono a fondare il Football Club Internazionale Milano, in un lunedì mattina – il 9 marzo 1908 – nel quale i tranvieri interprovinciali avevano dichiarato lo sciopero, così almeno garantiscono le cronache dell’epoca. Per l’atto di nascita della nuova squadra di Milano si riunirono in 44 al ristorante Orologio in Piazza del Duomo. Il numero uno dei dissidenti di chiamava Giorgio Muggiani, un pittore, e fu lui a dedicarsi al simbolo che non si chiamava ancora logo, scegliendo come colori il nero e l’azzurro del cielo stellato. Pare che avesse solo quelli sotto mano. Si fosse trovato sulla tavolozza un verde, un giallo, magari avremmo avuto prima del tempo la maglia simil Sprite vista solo tre anni fa. 

Bon, direbbe Baricco se ci fosse ancora Pickwick. Tra i soci venne scelto Giovanni Paramithiotti per la presidenza. Il verbale testimonia che la seduta fu chiusa alle 23. La prima sede del Milan invece era stata fissata in via Berchet 1, dove si trovava una fiaschetteria. In un servizio di qualche anno fa sui luoghi del derby, la Gazzetta dello sport scrisse che a quell’indirizzo si era insediato uno store Solo Inter. Loro sì che avevano la maglia Sprite. 

La prima volta che il Milan e l’Inter si trovarono di fronte fu per un mezzo derby, due tempi da 25 minuti giocati il 18 ottobre 1908 in Svizzera e vinto 2-1 dal Milan. Ha raccontato Massimo M. Veronese, firma del Giornale: Gente strana questi footballers. Sono arrivati in treno dall’Ortica, si sono divisi pane, salame, rosso di quello buono e due mani di briscola, nemmeno sanno di odiarsi, ridono e parlano di donne che non fumano, ricamano e si truccano solo con un velo di cipria, non sanno ancora di far parte di qualcosa di grande. È tutto magnificamente antico qui, cugini che viaggiano insieme e che lavano a turno le maglie di tutti, ragazzini che negli occhi hanno tutto, pieni di fede e di cicatrici, colpa di quei palloni che segano la testa con lo spago e delle scarpe troppo dure sulla pianta, con la fiaschetta di whisky appoggiata al palo per quando c’è bisogno di tirarsi un po’ su.

Si giocò al campo del Gas, il biglietto costava venti centesimi. Ti pare di entrare in campo – continuava Veronese – invece sei già dentro un’atmosfera, i footballers hanno baffi lucidati dalla pomata e pantaloni tagliati per la scherma, tenuti su dalla cintura di cuoio, le casacche con la lana pungono un po’ solo quando sudi. Il mondo è ordinato e cammina senza fretta, in Italia circolano 226 automobili e non c’è bisogno di avere la patente, Clark Gable ha sette anni, Wanda Osiris tre, Montanelli non è ancora nato, solo le persone istruite comprano il giornale che costa cinque centesimi, solo la metà dei bambini italiani va a scuola, stanno comparendo gli ascensori, i termosifoni, la luce elettrica, giocare a calcio è solo un modo di godersi la vita”

La stella di quel Milan si chiamava Pierino Lana, 20 anni, bassino e mingherlino. Quella dell’Inter era Ermanno Aebi, 17enne, detto Signorina perché ha i tratto gentili e piedi da ballerina

Match giocato accanitamente da ambe le parti raccontò il Corriere della sera mentre la Gazzetta dello sport aggiunse che le contendenti svilupparono un gioco accanito con tutta la potenza dei loro mezzi. Il portiere dell’Inter, Piero Campelli, aveva 15 anni ed era detto Nasone. Portava un cappellino a righe. Roberto Fronte, 15enne pure lui, si era presentato in sede perché aveva letto la notizia della fondazione su La Lombardia. Aveva 19 anni Virgilio Fossati, che sarebbe stato il primo interista in Nazionale (12 partite e 1 gol). Morì durante la Grande Guerra. Giovanni Capra, 21 pure lui, sì sarebbe specializzato nel fare gol al Milan. Nel Milan, scrive Veronese, spiccava Andrea Meschia, 25 anni, capelli ricci e baffetti, detto il Pinguino. Johann Ferdinand Madler era il primo tedesco del Milan, venuto da Stoccarda, baffi anche lui ma a manubrio.

La prima di campionato invece sarebbe arrivata il 10 gennaio del 1909. Non si divertirono manco per niente.

A pagina 2 del giorno dopo il Corriere della sera raccontò: 

 

  “Lo stato deplorevole in cui per il maltempo si trovava ieri la pèlouse del “Milan Club” ha fatto sì che le due squadre milanesi, scese ieri per incontrarsi nella prima gara di eliminazione per i Campionati federali, abbiano svolto un gioco pesante e monotono. La vittoria, per un sol punto, arrise alle camicie rosso e nere. L’una e l’altra squadra non erano complete: il “Milan Club” però aveva potuto surrogare il suo centro di prima fila con Treré junior, che è sempre il giocatore italiano che abbia maggior padronanza della palla. Il “F.C. Internazionale”, dopo venti minuti di gioco, perse il suo capitano, che è il miglior giocatore della squadra, in seguito a uno sfortunato accidente di gioco, che lo costrinse a ritirarsi. E dobbiamo dire che i neri e azzurri, ridotti a dieci, senza troppo scoraggiarsi dell’abbandono del loro duce, hanno fatto del loro meglio e hanno tenuto testa validamente agli avversari, fino al termine del match.Il “Milan Club” segnò 3 goals, per merito di Treré junior, Lana e Laich, rispettivamente; l'”Internazionale” se ne aggiudicò 2, per opera di Du-Chène junior e di Schuler. Pubblico non molto numeroso, ma in compenso animatissimo, largo di applausi e di fischi.

 

Fischiavano già.

Erano tempi nei quali l’Inter aveva il campo a Ripa Ticinese, all’altezza dei civici 113 e 115. I giocatori dell’Inter lo raggiungevano con il tram 19. Il Comune poi concesso l’uso dell’Arena e l’Inter vinse là il primo scudetto. Ha scritto la Gazzetta che cassette di frutta delimitavano il lato del terreno di gioco che appoggiava sul Naviglio Grande. I palloni, però, passavano che era un piacere. E così nel Naviglio sostavano barche e barchette dei soci nerazzurri e anche di tifosi. Il terreno di gioco era in terra battuta, altro che erba finemente rasata. Così l’umidità della zona lo trasformava spesso in un campaccio impraticabile. Non c’è traccia del campo oggi, se non una targa commemorativa

 

mappe

Milano e i suoi Navigli  

 

Le città attraversate da fiumi e da canali ne traggono una linfa vitale e segreta: ma gli uomini, nella loro tendenza proterva a ridurre l’ideale al materiale, la interpretano come efficienza dei trasporti. Anche Milano è stata vittima di questa allucinazione. Ha impiegato secoli di lavoro geniale per trasformarsi in una città acquatica, rendendo sempre più capillare la trama dei canali e la civiltà dei rapporti. Ma poi, nel giro di un secolo, dominata da due miti moderni, la macchina e la velocità, ha iniziato e in gran parte coperto il percorso contrario. Trasformare le vie d’acqua in vie asfaltate appariva un’operazione coerente con lo sviluppo della città; non si capiva che se ne tradiva la storia, se ne spegneva la bellezza, se ne impoveriva l’umanità

di giuseppe pontiggia

 

Milano è la città d’Europa con le strade più comode e i più bei cortili. Questi cortili, quadrati come quelli dei greci, sono circondati da colonne di granito. In tutta Milano si trovano ben ventimila colonne di granito. Arrivano dal lago Maggiore su un canale che sta nella città come un boulevard, dalla Bastille alla Madeleine, canale cui mise mano anche Leonardo. Noi non siamo che dei barbari”.

di stendhal 

 

Il buon odore del Naviglio, che veniva su al tramonto con quel sapore di salsedine che sembrava di essere a Venezia

di dino buzzati

 

  “Andare sui Navigli la sera, specie con una ragazza, era considerato trasgressivo. Perché più o meno il mangiare era sempre quello (molti salumi, pasta e fagioli, polenta, trippa), il bere anche (Barbera, non sempre all’altezza, ma anche vino pugliese, da cui “trani”, non sempre a gogò, come cantava Gaber). E poi partivano le canzoni, che erano sporche e in dialetto. Questo consentiva alle signore di non cogliere le decine di doppi sensi, e ai signori di farglieli notare. Si cominciava con Porta Romana, La povera Rosetta e il piatto forte era El gir del mond, di cui sono state incise versioni purgate, castissime. Il tutto per poche lire. Chi aveva più soldi andava al Derby, verso San Siro, e lì era cabaret, spesso grande cabaret. Sui Navigli, canzoni popolari o canzonacce spacciate come «della mala». 

Il buon odore del Naviglio non so cosa sia, non l’ho mai trovato e non l’ho mai cercato. Però mi piaceva quella sorta di melting pot, quel sentirsi insieme a Milano e fuori Milano. Era un quartiere non ricco, se non di umanità. L’ideale per milanesi anziani, famiglie numerose di immigrati, artisti e bohémien, ma anche grandi e piccole fabbriche (scomparse una dopo l’altra) e piccolissimi, geniali artigiani. Lasciamo perdere Parigi, la rive droite e la rive gauche. C’era un’identità, questo c’era. Magari erano case di ringhiera, con problemi di umidità e, talvolta, i servizi sul ballatoio. Ma teneva caldo, in qualche modo

di gianni mura, Repubblica, 8 gennaio 2006

 

  Poi sarebbe venuto il tempo di Milano vicina all’Europa, poi Milan e Benfica, il Milan di Nereo Rocco contro l’Inter di Helenio Herrera, che aveva il suo ufficio alla Pasticceria Cova, originariamente all’angolo tra via Verdi e via Manzoni, vicino alla Scala e dal 1950 spostata in Montenapoleone. Herrera riceveva là dirigenti, giocatori e giornalisti, negli anni in cui iniziò ad affermarsi la divisione tra i bauscia nerazzurri e i casciavit rossoneri, l’aristocrazia e il proletariato, il derby come lotta di classe, in una Milano che una decina d’anni fa su Repubblica Umberto Eco descriveva così:

 

  “Le starlette di allora, annunciatrici, presentatrici, comparse, venivano dopo lo spettacolo con noi, giovanotti squattrinati, e andavamo a ballare al Santa Tecla. Quelle tra loro che avevano bisogno di denaro facevano, accollatissime, i fotoromanzi o, in camicetta e jeans, apparivano sui muri della città mentre spalmavano il Ducotone. Hanno poi sposato tutte impiegati, garagisti, venditori di aspirapolvere. Vivevamo in una città civile, capitale morale d’Italia, dove la criminalità era prevedibile e localizzata, un matto che uccideva a martellate la moglie e i figli dell’amante, poi verso gli anni Sessanta rapinatori quasi professionisti che emulavano i film di gangster, ma alla fine si facevano prendere, come Cavallero; e per il resto piccola malavita da Porta Romana bella, roba da commissario Nardone. Salivano a Milano migliaia di meridionali, e i Cipputi di allora gli dicevano «Tas ti, brütt terun!», ma giocando insieme a scopone all’osteria, e gli offrivano da bere. Di quel che accadeva al Sud si sapeva poco, e si guardava a Roma come a una sentina di vizi, coi deputati democristiani che i disegnatori comunisti rappresentavano come “forchettoni”, e le follie della dolce vita. Era Milano centro di cultura, sede delle grandi case editrici, ombelico del mondo produttivo. Era una città bianca che non prendeva ordini neppure dal Vaticano e faceva il carnevale in una data tutta sua, ma poteva mandare al governo della città i socialisti storici. Milano ha cominciato a mutare volto col Sessantotto, e poi con la città che si svuotava a sera nel periodo del terrorismo

di umberto eco, Repubblica, 12 ottobre 2012

 

Derby è in Inghilterra una corsa di cavalli, in America una specie di bombetta e in Italia una partita folle. Derby a Milano sta insieme a San Siro, e spiegò Alfredo Venturi su la Stampa (8 novembre 1977) che su questo nome occorrerebbe precisare. Si tratta di una intitolazione non dedicatoria, ma puramente topografica. San Siro è una chiesetta, gli avanzi di una chiesetta, a pochi passi da qui. Una roba dell’Anno Mille, poi rimaneggiata nel Rinascimento, poi decaduta e semidistrutta: adesso per visitarla bisogna chiedere il permesso alle suore. E per avere il permesso delle suore bisogna suonare ad un portone di via Paolo Uccello che ancora oggi suscita ricordi atroci. Si tratta di Villa Triste, il quartier generale della banda Koch, estate ’44, le camere di tortura sono ancora intatte, conservate dalle stesse suore che tengono le chiavi di San Siro. Ma non è questo il punto. Da queste parti e non soltanto qui San Siro significa calcio, cosi come derby non significa altro che Milan-Inter.

La prima volta che si giocò dentro lo stadio intitolato a Meazza, il cantore della milanesità nel calcio, Gianni Brera scrisse sul Giornale: L’influenza mi fa dolere gli occhi nemmeno avessi l’indigestione addosso. L’aria è tutta un baluginare di puntini che i poeti e i caricaturisti vedono come stelle. Arrivo per tempo alla grande lapide ricoperta di un telo che il buon sindaco Tognoli si tirerà in testa fra gli applausi. Insulterei Paride Accetti che mi invita con Paolo Todeschini a farmi sotto. Il vecchio Mazzola, papiense, non abduano, mi ricorda che lui, Todeschini ed io giocavamo la palletta ai Boschetti. Le due figlie di Meazza attendono commosse. Mazzola mi mostra una foto a colori della lapide e noto che la mia epigrafe è stata malconciata per necessità di impaginazione grafica: «Al nome di Giuseppe Meazza, espresso dal suo cuore generoso, la città di Milano intitola questo glorioso stadio tante volte illustrato dai suoi gesti di atleta». Scompare «al nome» e quell’«intitola» è quasi lezioso. Guarda a 60 anni cosa ti tocca

 

  Ci sono stati lunghi anni di mestizia, i Settanta, aperti dallo scudetto di Invernizzi e chiusi dalla stella di Rivera e poi dalla vittoria di Bersellini, ma in mezzo nulla per Milano e tanto per Torino. Erano anni in cui Giovanni Arpino su la Stampa poteva scrivere (28 novembre 1976) che eccoci al derby meneghino, ferocemente definito «della mutua» da molta critica lombarda. Sarebbe opportuno rilevare come un certo decadimento sociale trovi triste corrispondenza nelle vicende sportive. Le colpe non sono — o non sono soltanto — di due club calcistici, ma di una «capitale» che ha smarrito i poteri carismatici

Poteri che avrebbe ritrovato negli Ottanta, la Milano da bere con i suoi -ismi, il craxismo, il berlusconismo, il sacchismo. La controriforma trapattoniana dei record.

Prima che si aprisse la stagione del neo-calcio, il derby di Milano, come raccontato da Gian Paolo Ormezzano su la Stampa (27 aprile 1988) era una cosa che lì per lì verrebbe da dire: Milan di popolo. Inter (Internazionale) di aristocrazia. E Milan addirittura di popolino raccolto in giro, su piazze italiane non sempre battute dal grande calcio, in occasione delle due calate in serie B. Ma non è esattamente così, ed anche ricerche recenti di dati proverebbero che l’Inter si sta milanesizzando diciamo verso il basso — un calo di ambiente, di censo dei suoi tifosi — tra rabbie ed affetti che, quando resistono, sono tempratissimi, sono diamanti, mentre il Milan si sta espandendo, anche fuori Milano, con un reclutamento “facile» di gente sedotta dalla scommessa industriale di questa squadra: dunque un sentimento nuovo, di grana grossa, però magari assai meno sentimentale del classico sentimento calciotifoideo di buona anche se ormai non freschissima memoria

Rispetto al modello di partizione classica (bauscia-casciavit), Michele Serra su Repubblica ha scritto (28 marzo 2011) che l’arrivo di Berlusconi al Milan (ormai è un quarto di secolo) ha molto rimescolato le carte, il milanismo ha corso il rischio di diventare governativo non solo per la sequenza formidabile di vittorie, anche per l’uso propagandistico delle stesse. E l’interismo, sempre più diffuso tra gli artisti, gli intellettuali e quelli che il neo-classismo populista chiama i radical chic, ha assunto un surplus di aria di fronda, di opposizione calcistica con sfumature politiche crescenti. Anche perché ai due presidenti miliardari corrispondono tipologie del ricco piuttosto antitetiche, ciascuna destinata a irritare profondamente la controparte, Moratti impegnatissimo nelle buone battaglie sociali come le doviziose famiglie meneghine già prese per i fondelli da Carlo Porta, con la moglie ecologista che circola in bicicletta sfidando le infernali sconnessioni dei lastricati del centro e le rotaie del tram (sempre il tram…), le iniziative benefiche e propedeutiche per i calciatori poveri dell’Africa, il sostegno ai circoli terzomondisti come la Comuna Baires (il nome Internazionale, vedi anche la composizione cosmopolita della squadra, come presagio politico?). Berlusconi, invece, che ostenta il primato del denaro, le ville, il potere, perfino l’egemonia sessuale senza un’ombra di senso di colpa, anzi con l’allegria ingorda del Numero Uno.

 

Sono passati dieci anni ancora, un altro giro intorno al mondo. Quella che Ormezzano chiamava scommessa industriale s’è fatta globale. Con le proprietà asiatiche dentro l’Inter e che già anticipano una nuova svolta, con quelle meno palpabili che ha vissuto il Milan fino allo sbocco del fondo Elliott. Proprietà che il tifo ha avvertito come algide. O forse è gaberianamente una cosa nuova che non abbiamo ancora ben capito. Lo scrittore Antonio Scurati ha detto al Giorno (17 gennaio 2016) che «Milano ha fascino perché è fredda, respingente, severa, ma è caratterizzata da legami trasversali, collegamenti inediti, aspetti nascosti». Incontrarla, andarci a vivere, per lui – napoletano vissuto a Venezia – è stato «come incontrare il Novecento al suo crepuscolo, nel pieno della sua complessità e stratificazione. Milano è fortissima nei progetti a breve termine, ma il furore del fare le impedisce di riflettere sulle questioni più profonde, sul senso delle nostre esistenze. Milano è una moglie – dice – non è un’amante. La si ama di un amore coniugale. Con lei si può trascorrere tutta la vita. È una città di cui ti puoi fidare, ti riconferma i suoi sentimenti nel tempo e non ti frega».

Buon derby, allora. Il primo senza Andrea Lo Vecchio, il musicista che accostò una melodia al testo di Roberto Vecchioni facendo nascere Luci a San Siro

Buon derby, adesso che Milano è tornata lassù.



 

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A cura di Angelo Carotenuto.

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