La prima domenica senza Gianni Mura

Consiglierei Birobiro del Corinthians
Vien via per 500 milioni
E poi si può far sponsorizzare dalla Bic
Gianni Mura
Lo sai, Gianni, qual è l’ultima parola che hai scritto? Mente. Poi hai messo il punto. Era domenica scorsa, la tua rubrica, non te ne eri stancato.
Mente. L’unica parola italiana che esiste con queste cinque lettere. Non ha anagrammi. La tua ultima parola è una parola che non si scompone, non si permuta, non ha affinità. È unica. Anche se un pignolo direbbe che può essere sostantivo o verbo. La prossima volta parliamo dei pignoli, ora non è il momento. 
Sarebbe bello adesso poter dire solo scemenze come questa, oppure spacciare per simboliche alcune coincidenze. Questo fatto che era il sabato della Sanremo. Questo fatto che il ciclismo è fermo. Questo fatto che i ristoranti sono chiusi. Questo fatto che Milano. Questo fatto che hai scelto come ultim’azione tua una cosa antica, fuori moda, un cuore che si ferma e basta, non si usa più, non lo fa più nessuno, me lo faceva notare prima Marco, sai, qui non c’è molto altro da fare, allora ci siamo messi a parlare di te. 
  Aligi dice che quando vi siete conosciuti – tu intervieni se sta esagerando, lo sai com’è fatto Aligi, ti vuol bene – al Tour del 91 eri rimasto senza macchina, chiedesti un passaggio su una Croma da 70mila chilometri che lui divideva con Stefano Barigelli e che chiamavate La Troia, perché di notte si scaricava e la mattina bisognava spingerla. “Noi guidavamo, tu cercavi alberghi e ristoranti, dal finestrino c’era la Francia, la tua Francia, e ci torturavi con i tuoi cd, Brel, Endrigo, al massimo un Paolo Conte. La corsa diventò presto un dettaglio. Mi ricordo tutto il resto invece, la scoperta di un giornalista mai visto, e la scoperta di un uomo pazzesco. Passava da citazioni di Orazio alla formazione del Genoa del 1978 con una sicurezza che annichiliva” (Aligi Pontani, da la Repubblica)

 

Paolo Tomaselli, Corriere della sera: “Il tempo che è passato non aveva lasciato incrostazioni sul suo entusiasmo per una certa idea di Francia, sulla sua capacità di capire le persone al di là di pregiudizi ed etichette, sul suo viaggio costante al cuore delle cose. E soprattutto sulla sua umiltà, che non era mai una posa innaturale, perché Mura chiedeva, si informava, telefonava, non voleva perdersi nessun dettaglio ben sapendo che un dettaglio può fare la differenza per chi come lui aveva il gusto del racconto, ma mai fine a se stesso”. 

 

  Sai Gianni, poi c’è Maurizio che da ieri dice che da te ha imparato “che una coppa di pesche e spumante è formidabile contro la febbre alta. Lui mi curò così, una notte, nel nostro mondiale tedesco del 2006, tornati a Dusseldorf da Dortmund. Era la sera della semifinale vinta. Febbre a 39°, viaggio in treno in piedi, caldo torrido. Poi, nel bar deserto dell’albergo quell’insalatiera piena di pesche e spumante, lasciata lì chissà perché, come un sogno, un’invenzione. Ci sedemmo, bevemmo, mangiammo. Poi una dormita biblica, e la mattina freschi come rose. In qualunque posto del mondo bisogna creare casa: la trattoria, il giornalaio, il fruttivendolo. Se ci torni ogni giorno, sei a casa. Bisogna comprare un po’ di frutta la mattina delle partite in notturna perché poi, tornati in albergo, è meglio mangiare quella piuttosto che le schifezze”. (Maurizio Crosetti, la Repubblica)
  Peppe invece stamattina ha raccontato della vita che avete passato insieme. “Se le lacrime finiscono, mi piacerebbe farne un romanzo per foto. L’ho visto processato alle Frattocchie quando ancora esisteva il Pci. Alla bocciofila di Albizzate l’ultima estate: lo annunciano dall’altoparlante, il pubblico si alza ad applaudire, e lui ringrazia. A fare la cronaca di una veemente partita della pace Comunità ebraica-Palestina (lui non scriverebbe mai veemente) … Condurre una meditatio a numero chiuso a Sotto il Monte. Il tema? Una frase di Isaia: “Essi trasformeranno le loro spade in aratri”. E riempire una sala parlando di Impressionismo e Grande Boucle, tutto giocato sui colori della Provenza, forse a Genova.
L’ho visto giocare a “calcio camminato”, sport per oversize (lui non scriverebbe mai oversize) dove è vietato correre. Preparare per ogni Tour la sua playlist (lui non scriverebbe etc.), che partiva da Brassens e arrivava a Giovanna Marini, passando per bravi e squattrinati cantautori del premio Tenco.
L’ho visto fare un video con Ligabue e scrivere una canzone per i Têtes de Bois. E soprattutto confessare passioni innocenti: i ravanelli, i funghi da raccogliere in Trentino con Paola, le carote (ma mai esagerare nella Ribollita), le albicocche. L’ho visto piantarsi come un toro di fronte alle richieste bizzarre che possono arrivare da un giornale. In quei casi, si partiva da lontano: Gianni, come stai, oggi ci manca la grande firma, ci sarebbe da fare questo pezzo sui centravanti mechati. Ma poi non risparmiarsi mai, nemmeno per un commento alla trentesima di campionato con la Juve in testa.Un giorno prese un interminabile locale Pescara-Roma. Era solo: arrivò il capotreno e gli disse: «Signor Mura, come mai lei qui?». Io pensavo che fosse indistruttibile. E che non fosse mai abbastanza: che servisse sempre mezz’ora e mezzo bicchiere in più. Il mio social network preferito – sorrideva – è un bar d’estate, con il pergolato sul retro.
Con un finale quasi fisico a tarda notte, quegli abbracci che oggi non possiamo darci. Amava i suoi fratelli grassi, anche se era molto dimagrito, e ne era felice”. (Giuseppe Smorto, la Repubblica)
  Ah, senti il tuo amico Michele cosa scrive. “Tra Gianni e la sua scrittura non c’era nessuna distanza. La persona e le parole coincidevano, erano la stessa identica cosa, materia della stessa vita. Se lo abbiamo letto e amato in tanti, davvero in tanti, è per questa sua straordinaria interezza, rara nei giornalisti, rarissima negli intellettuali, un poco più frequente negli artisti. Era stonatissimo ma gli piaceva molto cantare. Ha cantato al telefono, per gli amici, anche nelle sue ultime ore di vita, in un letto di ospedale, solo con la sua prodigiosa memoria.  Qualcuno estragga dal suo grande cuore, per piacere, il corpus infinito di versi e di note che lo occupano, e ce lo restituisca. È roba nostra, ridatecela. C’era umanità in ogni sua cellula, e c’era la ricerca inesausta dell’umanità in ogni sua parola. Lo deludeva, dei nostri tempi, l’inumanità, Gianni aveva qualcosa di “antimoderno”, teneva in gran sospetto la tecnologia. Gli volevamo bene anche per questo suo anacronismo eroico, e forse preveggente: non era in ansia per la nostalgia della vecchia Olivetti, ma perché faticava a ritrovare, nei tempi nuovi, quegli elementi di amicizia e di convivio – oso dire di fraternità e di amore – che sono stati la sua ragione di vita. Se penso a Gianni, e lo penserò per sempre, penso anche, come è giusto che sia, a un italiano di sinistra. Se avete presente il cliché, parecchio cretino come tutti i cliché, del radical-chic, beh Gianni lo frantumava in mezzo secondo. Figlio di un carabiniere sardo, il Mura era un uomo del popolo. Voleva bene ai perdenti e gli umili, odiava l’arroganza e il privilegio, e tra un tre stelle fighetto (anche se sapeva riconoscere qualità e merito di un tre stelle fighetto) e una bettola sapiente, il suo cuore era con la bettola sapiente. Una cosa importante da dire, salutando la sua imprevista partenza per non si sa quale brasserie, è che gli amici (tanti) e i lettori (tantissimi) possono ben dire di avere conosciuto lo stesso Mura. Vi chiedo, ovunque voi siate, di stappare una bottiglia per lui, e levare il bicchiere, così come stanno facendo i suoi amici. Una delle cose più tremende di questi giorni è che non si possono fare i funerali. Il suo sarebbe stato – e sarà, appena possibile – pieno di cose da mangiare e di cose da cantare. Se conoscete qualche canzone di Endrigo cantatela per lui, era il suo preferito.
Basta anche qualche verso. Basta un sorso, un pensiero, un ringraziamento, una pedalata sulle Alpi francesi o sui Pirenei, e Gianni Mura sarà di nuovo insieme a noi. Per sempre insieme a noi”. (Michele Serra, la Repubblica)

 

Matteo Marani su Sky Sport online: “Lavoro e rispetto dei diritti, l’impegno a favore di Gino Strada e l’amore per Mariangela Melato. Sincero, schietto, persino ispido di fronte al perbenismo. Una cosa ti piaceva o non ti piaceva, senza mezze misure, senza soppesare nulla. Ti sono piaciuti gli ultimi, gli emarginati, quelli storti, le maglie nere del tuo amato, amatissimo ciclismo. Ti eri conquistato una credibilità che nessuno possedeva nel nostro mondo”. 

 

  Bel tipo che sei, andartene così, con un mucchio di risposte rimaste in canna. Era bello domandarti di questo e quello. Fare liste, classifiche, dualismi. Chi è stato il più grande del mestiere, Gianni, secondo te, chi è stato? Io penso, dicesti, che il più grande giornalista sportivo della storia sia una giornalista, e penso che sia Manù. Manù è Emanuela Audisio. Tu mettevi l’accento, altri l’accento non lo mettono, ma insomma è lei. Rimuginavi sul fatto che non gliel’avevi detto mai, ma senza bisogno di dirvelo lo pensavate l’uno dell’altra. 
E adesso guarda Manù, proprio Manù, che forza vicino a te e alla tua Paola, lo sai cos’ha fatto? Ha pensato a te, a voi e a noi. Ha fatto in modo che noi da quaggiù stamattina senza poterti vederti ti vedessimo, tu “con il quaderno a quadrettoni, dove annotava i suoi giochi di parole. «Stanotte, ne ho pensato uno: diamante, gioiello extraconiugale»”. Tu che eri “leggero in tutto: con le parole, con i gesti, con i pensieri”. Il tuo computer in ospedale, il tuo salvaschermo (Fréhel), la tua suoneria (“Chants de partisans , una Bella Ciao francese”). 
“E aveva un italiano splendido, semplice, nitido. Grande anche la sua generosità, non arrivava mai a mani vuote. Ti stroncava con i riferimenti a canzoni, libri, autori, anche dialettali, ricordi, paesaggi. Ne aveva in abbondanza, per tutto e per tutti. Non era tipo che risparmiasse: sulle bottiglie di vino, sul pecorino di Cugusi («pastore, non agricoltore»), sul pane e salame, sulla musica, sulla letteratura, sulla poesia, sul versare e condividere con gli altri, sullo scassarsi il cuore. Con lui, facevi scorpacciate: di curiosità, di raffinatezza”. 
Tu e le tue parole crociate. Tu e la gente. Manù dice che stavi sostenendo “l’economia locale (quando ancora si poteva uscire) comprando pecorini e vini, della zona e non, contento di trovare il gorgonzola di capra della Latteria sociale di Cameri, lo stracchino di Sabelli e il Cannonau di Pusole. Era rimasto commosso dalla cura con cui nel suo negozio Francesco tagliava a mano il prosciutto: «Vedessi i suoi occhi e la dolcezza della sua mano»”.
Ci ha detto che “al dottore che gli aveva chiesto che lavoro facesse, Gianni aveva risposto: sedentario. Già, come no: con 33 Tour de France sulle spalle e con un premio Blondin (unico non francofono a vincerlo) assegnatogli nel 2015 «per la prosa meravigliosa». Tanto che L’Equipe lo ricorda come memoria vivente della corsa facendo notare che era nato «nel 45 come Eddy Merckx»”. Ci ha detto che “le ultime sere con Paola guardava in tv L’Eredità e sì le parole le sapeva tutte subito, senza vantarsi. Si era spazientito solo alla mancata risposta di chi fosse La canzone di Marinella. Vai a casa, se non conosci De André”.
Ci ha detto che “Paola l’ha vestito con i jeans, una polo, un golf e scarpe sportive. Non era tipo da cravatta, ma era elegantissimo nella sua semplicità da Mura”. 
E poi lo sai Gianni che Manù ci ha fatto piangere, perché oggi a qualcuno toccava, e non è neppure la cosa più dura che le sia toccata, togliere un tappo, come nei film fa Spielberg
“Alla fine dei suoi racconti sulle vite degli amici persi scriveva sempre: ti sia lieve la terra. Io invece vorrei che la terra diventasse dura, ferrosa, respingente. Che ci restituisse Gianni che credeva nella libertà e che la poesia è un po’ come la Provenza: non sei tu che ci entri, al chilometro tale, ma è lei che ti viene incontro, che s’annuncia con i colori dei campi di lavanda e di girasole. E che voleva bene alle fisarmoniche appoggiate su una sedia. Diceva che sono l’unico strumento che si dilata. Dimenticava il suo cuore”.

 

Quando passavi in redazione, si accendeva una luce, fior di intellettuali in soggezione di fronte a te. Passavi ed erano domande. C’è un giornalista sportivo del passato, Gianni, che sarebbe da riscoprire? Vittorio Varale, rispondevi, andatevi a cercare cose sue. 
Il dover lanciarsi a 40 all’ora sull’infame acciottolato, dove – secondo la pittoresca ma azzeccata definizione di un corridore – sembra di stringere non già il manubrio della bicicletta ma un martello perforatore, e continuarvi lo sforzo saltellando dalla stretta e insidiosa banchina sul pavé e viceversa nella vana ricerca d’un momento di requie a quello strazio, pone i corridori di fronte a un imprevisto e serio problema: quello del materiale, giacché la difficoltà consiste nel superare il tratto pericoloso senza che le forature, o peggio, arrestino inesorabilmente lo slancio | Vittorio Varale, la Stampa, 9 aprile 1955
Quella volta che dicesti cosa avrebbe dovuto fare un giornale per averti. Alla mia età non si cambia più – fu la premessa – ma se proprio qualcuno volesse tentarmi, dovrebbe offrirmi di scrivere poesie. Tu pensavi che “una canzone è una canzone e una poesia è un’altra cosa. Ma esiste la libertà di percepire, quasi da rabdomanti, qualcosa di poetico anche in una canzone, soprattutto in molte canzoni di De Gregori, che per i testi ha una cura particolare. Se al posto di buonanotte, buonanotte fiorellino avesse scritto 24, 34, 29 il metro non sarebbe cambiato ma non so quanti gli chiederebbero il bis”. (29 marzo 2015)
Poi hai trovato una formula e hai cominciato a trascriverne nei Sette Giorni, una ogni domenica, in coda, come una boccata d’aria al termine della settimanale razione di voti e di storie che potevano sembrare minuscole, ma dentro c’erano le persone e c’era la tua maniera di stare al mondo. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di scrivere della classifica disciplina del campionato calabrese di Terza Categoria (una storia tra la Koa Bosco e la Vigor Paravati, suppergiù). Eppure il Metodo Mura consisteva nel partire da lì e parlare di muri, razzismo, emigrazione. Non era mai rabbia, era indignazione, senso civico. Per questo è sensato dire che tu sei il Galeano italiano. Per impegno, per militanza, per lo sguardo.
  Il coccodrillo per la morte di Galeano    Gli piaceva il calcio, tanto da dedicargli un libro intero, anche se la sua storia è triste «perché passa dal piacere al dovere». Non gli piaceva la sinistra che snobba il calcio in quanto oppio dei popoli (qui evidente la vicinanza con Pasolini). Si definiva «mendicante di bellezza» e si specchiava solo in Messi. Però sapeva a memoria la formazione tipo dell’Inter del Mago (Sarti, Burgnich, Facchetti ecc). Con Osvaldo Soriano, Galeano è la stella (uruguayana) nel cielo dei giornalisti sportivi che non vivono di solo 4-3-3. Ha scritto: «Come tutti gli uruguagi avrei voluto essere calciatore. Giocavo benissimo ma solo di notte, mentre dormivo. Durante il giorno ero il peggiore scarpone mai apparso sui campetti del mio Paese». Ma anche: «Se non ci fosse il diritto di sognare tutti gli altri diritti morirebbero di sete». Ci teneva agli etimi: «Democrazia, parola che significa potere del popolo, è stata umiliata fino a ridursi al contrario di giustizia». E ancora: «Ricordare deriva da re-cor, significa ripassare dalle parti del cuore». Non faceva sconti: «La carità è verticale, va dall’alto al basso. Non mi piace. La solidarietà invece è orizzontale, ha rispetto degli altri». Si era appuntato un cartello degli Indignados spagnoli: «Se non ci farete sognare, non vi faremo dormire». Credeva nella grandiosità delle piccole cose. Dalle parti del cuore non ha mai smesso di abitare né di scrivere. Mi piace immaginarlo come un ambulante di generi un po’ così, la dignità e la speranza. | Gianni Mura, la Repubblica, 14 aprile 2015
  La repulsione per certe parole    Nemmeno è arrivato il tanto atteso top player, forse perché trop player, cioè troppo caro. Altre varianti. Tap player: bassa statura e alto rendimento, quindi chi ha Insigne, Gargano e Pizarro ha fatto un affare importante. Coop player: da acquistare in società tra società o da scambiare in allegria, vedi Galliani-Preziosi. Dop player: alla larga, o usa additivi chimici o arriva sempre in ritardo. Flop player: presto per indicarli. Kop player: non si muove da Liverpool. Pop player: spesso coincide col top. Soap player: spesso coincide col pop e col top. Zop player: spesso infortunato. Senza scordare il tip player: obbligatoria mancia (del 15%) al suo procuratore. | Gianni Mura, la Repubblica, 2 settembre 2012
Se qualcuno trovava belle cose tue in archivio e veniva a dirtelo, vincevi la timidezza chiamandolo archeologo, qualche volta speleologo. Sei tra i pochissimi a uscire bene dal libro di Vittorio Sermonti sul Mundial 82, Dov’è la vittoria, un reportage pamphlet sul grande trauma del giornalismo di settore italiano, il titolo vinto in Spagna – in mezzo al silenzio stampa – da una Nazionale criticata in modo feroce fino a due settimane prima. Un piccolo saggio sul trasformismo italiano, di cui tu ridesti in tempo reale, scrivendo un pezzo memorabile in cui mettevi allo specchio cosa si diceva di ogni giocatore dopo le prime tre partite e cosa si scriveva alla vigilia della finale. I giornali erano luoghi di sperimentazione.
  | satira   Zoff (prima). Una frana, a quell’età bisognerebbe avere il coraggio di smettere. Non vede i tiri da lontano, è sempre incollato alla linea di porta. Non fosse friulano come Bearzot, garantito che in porta c’era un altro. Già ci ha fatto perdere i mondiali in Argentina. Possibile che in un paese di portieri non se ne trovi uno giovane migliore di Zoff?
Zoff (dopo). È come Pertini. O Pertini è come Zoff. O Zini come Pertoff. La classe non è acqua. Portiere leggendario, el abuelo, el arquero de marmo, el caballero del deporte. Grande quercia, riflessi da ragazzino. Attanaglia, blocca, inchioda, sventa, si erge, baluardo estremo insormontabile di una pattuglia gloriosa, degno capitano di un manipolo di eroi.  | Gianni Mura, la Repubblica, 11 luglio 1982
  E andasti avanti così per tutta la squadra, Bearzot compreso. Oggi un pezzo del genere i giornali non te lo mettono, dicesti trent’anni dopo, e quante cose oggi i giornali non mettono. Non ti capacitavi del fatto che se avevi scritto 130 righe per una tappa del Tour di pianura, fossero sempre 130 per una tappa decisiva di montagna. Le tue cartoline dalla Francia. La tua caccia alle albicocche della Drome. I tuoi pezzi dettati dai Pirenei perché dicevi che non c’era campo per mandare col computer, ecco, adesso siamo tra noi e puoi dirlo che era per finta, campo ce n’era, Gianni, puoi dirlo che per almeno due o tre tappe volevi regalarti il piacere di lavorare come un tempo – che bello dev’essere stato quel tempo – le sigarette in giardino, fuori da queste sale stampa tutte uguali, la macchina per scrivere in braccio oppure tutto a braccio (“a quante righe siamo?”), e al giornale felici di darteli tre giorni così. 
Da Fabio Fazio    Alpi o Pirenei? Pirenei, tutta la vita. Sono più drammatici e fa più caldo. Le Alpi son piene di bambini biondi, e mucche bionde, e di stazioni di sci: bionde anche loro. | Gianni Mura a “Che tempo che fa”
Sempre Aligi ha raccontato stamattina che a Casters nel 1991 “c’era questo alberello storto, eroico con la sua ombra, forse un ciliegio. Gianni aveva portato là sotto un tavolino di quelli da bettola, e una sediola sgangherata. Sul tavolo, la macchina scrivere era assediata da bicchieri mezzi pieni, bianco, rosso, rosè. Il foglio in macchina era imbrattato con ditate di unto, residui di formaggi, salami e patè erano sparsi ovunque, e intorno a Gianni cinque o sei robusti contadini si affannavano a portargli cose da assaggiare. Una riga battuta velocemente, una sosta, un bicchiere di vino, una pacca sulle spalle, un’altra riga, un altro bicchiere, un altro salame, un’altra risata. Non avevo mai visto e mai potrò più vedere nessuno lavorare così. Non era infatti lavoro. Era vita, la sua vita. Il giorno dopo mi feci mandare dal mio giornale il suo pezzo, volevo capire cosa potesse aver prodotto quel baccanale. Era un pezzo memorabile, come quasi tutti quelli che Gianni ha scritto dal Tour”. Rileggiamo.
  Il pezzo su Pantani da Plateau de Beille     Pantastique, cari amici francesi e italiani vicini e lontani. Il bello di Pantani è che lo aspetti e lui arriva. Come un treno, come un vento, come una ruspa, come una musica. Rimette in discussione il Tour, rifilando 1’4″ a Ullrich.Pantani è l’esperanto del ciclismo. Lo capiscono i bambini e i vecchi allo stesso modo, lui è la biglia dei bambini, il loro cartone animato, lui è la consolazione dei vecchi, il ricordo che si salda alla realtà. Lui è terribile quando attacca, è l’ululato nel bosco e il soffio che fa tremare le candele, è selvaggio e solitario, ostinato e intrattabile, ma con una sua mistica precisa della corsa, della salita, della fatica. Ed è fatto come è fatto, una biglia d’uomo andata spesso fuori pista, fuori conoscenza, fuori strada. Può rasarsi e mettersi tutti gli orecchini e le bandane che vuole, per me non sarà mai il Pirata, troppo facile. È più complesso, Pantani.Capirete che l’uomo-biglia, il bonsai, ha radici profondissime nella terra del ciclismo, che è poi la terra degli uomini, dei contadini, dei nomadi e dei poeti, forse anche dei pirati. In certi bar di provincia c’è sempre una fisarmonica o una chitarra sull’ultimo tavolo in fondo. Arriva da fuori uno e si mette a suonare. Come fa Pantani con le salite vere. Spettacolo vero, ciclismo vero, e poi non dovremmo innamorarcene? In coda c’è posto, grazie.  | Gianni Mura, la Repubblica, 23 luglio 1998
  Su Pantani da Les Deux Alpes     M’illumino di Pantani, che arriva sotto l’acqua con dietro, come lucciole grasse, i fari ballonzolanti delle grosse moto. Ma sì, illuminiamoci un po’ tutti di Pantani, che scuote dalla fondamenta questo Tour torbido, che schianta Ullrich come fosse un gigante di cartapesta, che si veste di giallo, che ridà grandezza e dignità al ciclismo e dunque anche a questo Tour malato e mal disegnato, non certo per i suoi mezzi, enormi da una parte e limitati dall’altra.  Pantani viene da una terra che non è solo discoteche e piadine: ai vecchi, lì, si dà ancora retta. mi sono accorto di perdere lucidità quando vince Pantani. Non c’è il dovuto distacco, tanto vale ammetterlo: mi prende. Ancora non so da quali luciferine profondità cavi quella voglia di solitudine, di sofferenza, che molto raramente (non ieri, ad esempio) si sciolgono sul traguardo in un sorriso. Alza una mano, poi l’altra, le batte una volta, serio, e basta. Come l’illusionista dopo il numero riuscito. Questa, come tutte ma più di tutte, è una corsa di uomini ma anche di carburanti. Può essere, ma diciamolo sottovoce, come nei romanzoni di appendice, il Tour dei grandi peccatori e dei grandi innocenti. Fermo restando che Marco Pantani originario di Sarsina, il paese di Plauto, dove ancora nella chiesa di San Vicinio si curano gli indemoniati con un collare di ferro, non è un ciclista. È un cuore in bicicletta. Più si sale e ci si avvicina al cielo, più questo cuore batte, ribatte, combatte. E abbatte Ullrich, ma vedere in questo la storia di Davide e Golia sarebbe assai banale. Cercheremo di meglio, sperando di trovarlo, coi nostri violini di parole di carta. A volte, è anche bello dire semplicemente: grazie. | Gianni Mura, la Repubblica, 28 luglio 1998
| il metodo Mura  Scrivere di Tour e di girasoli    Dice che quando Repubblica lo lascerà a casa continuerà a partecipare al Tour a sue spese scrivendo pezzi per un giornale povero. Dice che quando non potrà più seguire il Tour si sentirà amputato di una parte del corpo (forse di una parte del cuore). Dice che il Tour è la Francia come la baguette, la voce di Édith Piaf, le Gauloises senza filtro e il pastis. Gianni Mura è pioniere del vecchio giornalismo del “colore”, l’ultimo scrittore-inviato al Tour de France che è l’amore della sua vita, oltre alla moglie Paola. «Ma non è gelosa, mia moglie». Ed è l’unico non francofono ad aver vinto il premio Blondin per la sua prosa: «Sì, è un premio molto importante. Blondin era giornalista de l’Equipe e scrittore che ha seguito il Tour per circa 25 anni. Meno occasionale di Buzzati, Pratolini, Gatto. Era proprio una firma. Siccome sono il primo non francofono a vincerlo mi ha fatto piacere. Anche perché era un premio legato alla scrittura. Hanno fatto una cosa carina sul podio: c’era il direttore del Tour, c’era Hinault che mi ha dato il premio, c’era un po’ di gente a batter le mani. Ero contento, ho pensato di essermelo meritato, in fondo. Diciamo che io entro nel Tour quando la macchina parte da Milano, allora mi carico di libri, cd, con l’addetto stampa di minimum fax Alessandro Grazioli. Per entrambi è come andare in ferie».
 ➣  La prima immagine che ti viene in mente se pensi al Tour è sempre la stessa dal 1967?
«Un campo di girasoli. È la prima immagine che mi aveva colpito sin dal ’67, ero nella zona tra Alby e Tolosa, a sud. Non è come vedere una cartolina. Se sei in mezzo a delle coltivazioni di girasoli che sono lunghe un chilometro, passarci di fianco ti impressiona».
 ➣  Non è più possibile inviare al Tour o al Giro poeti e romanzieri come negli anni Quaranta e Cinquanta? Potrebbe esser un’ottima idea visto che lo storytelling è particolarmente in voga di questi tempi.
«Credo che i giornali non credano più molto nello storytelling, mentre comincia a crederci la televisione, vedi il successo di Buffa per esempio. Molti direttori non credono più nel pezzo lungo e scritto con un buon italiano perché dicono che la gente non ha tempo di leggere e invece non è vero. Io ho sempre sostenuto che questa fosse una balla, se uno vuole il tempo lo trova. Dipende cosa dai da leggere ai lettori. Non è che ha perso il fascino il racconto, l’ha perso presso quelli che spesso fanno i giornali e decidono come farli. Questo è, purtroppo».
 ➣  Sei uno degli ultimi pionieri, se non l’ultimo, dei pezzi “di colore”: che succederà quando smetterai di scrivere sul Tour?
«A me che sarò molto più triste, al resto del mondo non me ne frega più di tanto. Io spero che continueranno a esserci pezzi di colore perché credo in questo tipo di giornalismo che è un giornalismo più lungo che corto, più umano che superumano. Di Pantani avevo detto che sembrava uno che aveva rubato la bici e aveva bigiato scuola. Credo che proprio la retorica l’ho schivata. E quindi per questo tipo di giornalismo mi dispiace. Forse rispunterà quando tutti si saranno stufati di leggere dei pezzi che sembrano dei verbali di polizia stradale e forse ci sarà qualcuno che riporterà in alto il genere. Non si ritiene più necessario mandare al Giro giornalisti-scrittori com’erano Buzzati e Pratolini, è più facile che li mandino per un Mondiale di calcio. Io vedo un barlume di speranza in questo senso: questo tipo di giornalismo, a tanti o a pochi, per quanto mi risulta ancora a tanti, continua a piacere. Ma è abbastanza difficile tenerlo in vita. Pratolini o Gatto erano sempre l’inviato in più, di letteratura, rispetto all’inviato ciclistico. Io ho potuto tenerlo in vita perché ho fatto il triplo inviato in una persona sola, quello che chiamo “effetto spugna”: faccio la corsa, l’essenziale delle interviste e se c’è del colore ce lo metto. Una persona costa meno di due come inviato. Il fatto che io parli dei girasoli è perché essendo lì sento il dovere di dare qualcosa di quello che vedo. Le fasi di corsa il lettore le ha già viste. L’importante è rispettare l’importanza delle cose, per cui se c’è una tappa veramente “a tutta” possono anche esserci 700 chilometri di girasoli e io ne parlo appena; se non è successo un cazzo e devo fare come minimo 85 o 90 righe allora ci metto anche il paesaggio». | Intervista di Emanuele Prina, Rivista Undici, 29 giugno 2016
La chanson de geste   ➣  Cos’è il Tour de France con una metafora.  «Per i francesi è la festa di luglio. Per me è l’avventura di un mese, l’esperienza che più di ogni altra si avvicina alla chanson de geste».
 ➣  Il giornalismo è un mestiere o anche uno stile di vita?  «Quando iniziai, lo vedevo come una forma di artigianato, un qualcosa che si fa con le mani, un po’ come il calzolaio o il vasaio. Ergerlo a metafora di vita mi sembra esagerato, però gli va riconosciuto un certo peso: chi fa  questo lavoro può potenzialmente rovinare delle esistenze. Richiede molta responsabilità, questo sì. Più che un medico, direi che un giornalista può ambire ad essere un buon infermiere». | Intervista di Davide Bernardini, Contrasti, 21 maggio 2018
Mura e il suo alter ego autista    Mura con il suo francese pulito e letterario, e Pierelli con il suo milanese, che del francese ha una nobile parentela nella musicalità. Mura con un mazzetto di cartoline da spedire ad amici e conoscenti, Pierelli con i francobolli per spedirle appena possibile nella speranza di tornare a casa dopo che le suddette cartoline fossero giunte ai destinatari. Mura con la rete dei suoi informatori, ai tempi del Giro erano i gregari, uno per squadra, come Ugo Colombo nella Filotex e Roberto Poggiali nella Salvarani, al più un mezzo capitano e mezzo gregario come Enrico Paolini nella Scic, ai tempi del Tour erano i giornalisti, uno per nazionalità, come Philippe Brunel per i corridori francesi e i colleghi di Cyclingnews per quelli anglofoni, e Pierelli con il giro degli autisti, degli elettricisti, dei telefonisti, preziosissimi, documentatissimi, generosissimi. | Marco Pastonesi, il Foglio
  Il ricordo del figlio di Pierelli    Era appena finito il Tour del 2009, il primo che Gianni Mura aveva fatto senza mio papà, «il Carletto» come lo chiamava affettuosamente, costretto in extremis a rimanere a casa per una malattia che se lo sarebbe portato via poco dopo. Il Carletto non era solo il suo autista sulle strade francesi dal 1992, ma molto, molto di più. Un amico vero, quasi un fratello: complici e alleati. Quel Tour, Mura lo visse praticamente al telefono: tutti i giorni a sincerarsi sulle condizioni di salute del Carletto. Se lo faceva passare al telefono e ogni volta riusciva a trovare delle parole di conforto, sentite, mai banali, quasi sempre col groppo in gola, anche se tentava di trattenere quel vocione singhiozzante.
Parlavano di ristoranti, di vini, di vita, mai della malattia. Appena rientrato da quel Tour di 11 anni fa, la prima cosa che fece Mura fu precipitarsi a casa di mio papà. Così, all’improvviso, senza avvisare, ancora con la valigia in mano. Suonò al citofono e al Carletto brillarono gli occhi. Li trovai in casa, loro due e Marco Pastonesi, altra firma storica della Gazzetta. Sdraiati sul divano, a bere lo Chablis che da giorni era in frigorifero: perché il Carletto, conoscendo Mura, inconsciamente si aspettava la sua visita. Li legavano tante cose: il senso della misura, il rispetto, le sigarette che annerivano la loro macchina, la leggerezza nell’affrontare qualsiasi argomento, ma soprattutto un concentrato di umanità che li ha resi inseparabili. Due anime nomadi, che ora riprenderanno il loro viaggio insieme.  | Matteo Pierelli, la Gazzetta dello sport
  L’esordio al Tour    Quando lo conobbi, nell’estate del 1967, pensai ” ma chi è ‘sto strionzo?”. Era un ragazzino di 22 anni, mi sembrò pieno di spocchia più che di emozione per il suo primo servizio da inviati. Eravamo ad Amiens, Alta Francia, quarta tappa del Tour. Ci presentammo: piacere, piacere. Mi porse la mano senza guardarmi negli occhi, poi subito vidi le sue spalle che si allontanavano. Si chiamava Gianni Mura. Ma scoprii presto che era tutt’altro uno stronzo. | Franco Recanatesi, Corriere dello sport-Stadio

 

E poi le tue cartoline da Ischia. I tuoi Simenon. I cimiteri di guerra. I racconti degli anni a Epoca. Andrea Monti, direttore della Gazzetta, stamattina sta raccontando: “Il primo grazie è per avermi messo in mano (e talvolta sulla testa) una macchina da scrivere quando avevo appena 19 anni, al settimanale Epoca, che ora è polvere e ricordi nelle emeroteche. Un maestro riluttante, ruvido e terribilmente esigente. Lui era la star in una redazione scintillante di talento ed eclettismo, di quelle che solo un grande giornale al tramonto può permettersi. Eppure si applicava al giovane allievo come Ray Sugar Leonard al sacco da boxe: colpi duri ma talmente perfetti che persino il sacco finisce per ammirarli. E imparare qualcosa. Il secondo grazie è per avermi tolto – complice Paola, la sua straordinaria compagna di vita – quell’aria da stronzetto che ai tempi rivestiva gli aspiranti intellettuali come una seconda pelle, chiamandomi alternativamente “Cita“, l’accostamento è alla scimmia di Tarzan, o “Big Jim” con riferimento all’odiato imperialismo yankee. Il succo della lezione? L’esuberanza e lo zelo sono nemici del pensiero. Il lardo non è peccato. E Soriano è assai più istruttivo di Sartre”.
  Un’immagine dietro l’altra. Quanta gente che ricorda, quanto mondo che ti vuole bene. Per quanta gente ci sei sempre stato. Il tuo festival di Sanremo. La tua teoria su Tenco. Le tue prefazioni generose per chiunque te ne chiedesse una (“Ma prima leggo il libro, e solo se mi piace”). I tuoi giochi di parole che stamattina ha raccontato Stefano Bartezzaghi.
“Mura sapeva trovare le parole sotto le parole e le persone sotto le persone. Uno dei generi in cui era del tutto inarrivabile era infatti quello delle interviste, dove le parole che riusciva a far dire all’intervistato ne diventavano il ritratto più rivelatorio. È stato così per esempio con Osvaldo Bagnoli e il suo modulo di gioco («el tersin che fa ‘l tersin; el median che fa ‘l median») ed è stato così con Marco Pantani: «Perché vado così forte? Per abbreviare la mia agonia». In questo si vede come il primo maestro di Mura, ancor più che il pur amato e ammiratissimo Gianni Brera, sia stato Beppe Viola, per umanità e humour.
Prima di uno Juve-Napoli dei tempi d’oro, Mura mise a confronto Maradona e Platini dando voti alle loro caratteristiche. Ci infilò anche la voce “orecchini: 1-0“.
Faceva anagrammi sorprendenti. Da “Festival di Sanremo” trasse: “rime sfonda-Stivale“. Su Carol Voitila (scusandosi per la necessaria semplificazione alfabetica) scrisse un carme, ogni verso un anagramma. Uno di questi era “L’alto vicario“, che è un anagramma sconvolgente. Lui pregava di citarlo con gli altri: “Da solo pare un modo di mettersi in mostra”. Così le parole definitive le ha trovate un suo lettore, Gianni Cossu, ieri, con un anagramma su Facebook, in rima: “Gianni Mura = umani grani“. (Stefano Bartezzaghi, la Repubblica)
C’è un aggettivo per te    Il direttore Carlo Verdelli (la Repubblica): ruvida (la barba). Andrea Scanzi (il Fatto Quotidiano): pantagruelico. Maria Luisa Colledani (il Sole 24 Ore): milanese. Leonardo Coen (il Fatto Quotidiano): geniale. Alessandro Dell’Orto (Libero): imbattibile. Pier Augusto Stagi (il Giornale): grande.  Leo Turrini (il Giorno): garbato
Il romanzo del tuo ispettore Magritte. Le tue sigarette alla finestra, certe volte di nascosto. I tuoi posti. I tuoi piatti. Il tiramisù mai. I tuoi amori meno esibiti. L’atletica per esempio. Quella cosa che successe con Norman? Scrivesti un pezzo sull’australiano che a Messico 68 era il solo bianco sul podio dei pugni guantati di nero. Uscì sul giornale, poi sai come va a finire, qualcuno lo mise in rete, fece uno strano giro e qualche decina di migliaia di condivisioni su un blog. Non ci potevi pensare che avesse avuto più longevità in quel modo. 
  La storia dell’uomo bianco nella foto    Bisogna sforzarsi di non guardare i due a testa bassa, il pugno chiuso alzato in un guanto nero, calze nere e niente scarpe, sul podio. Bisogna concentrarsi sull’atleta di sinistra, bianco, lo sguardo dritto, le braccia lungo i fianchi. Bisogna anche avere un’idea sull’età dei tre sul podio. Tutti nati nel mese di giugno. Smith nel Texas, settimo di undici figli. Ha 24 anni. Suo padre raccoglie cotone. Norman è il più anziano, ha 26 anni, suo padre è macellaio, famiglia molto credente e vicina all’Esercito della salvezza. Carlos ha 23 anni,è figlio di un calzolaio, nato e cresciuto ad Harlem. Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Ma loro non lo sanno e, se lo sanno, non gliene importa. Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo (ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato). Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C’è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l’altro tu», consiglia Norman. Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro. «Se ne pentiranno tutta la vita», dice Payton Jordan, capodelegazione Usa. 
  Vengono cacciati dal villaggio, Smith e Carlos. Uno camperà lavando auto, l’altro come scaricatore al porto di New York e come buttafuori ad Harlem. Sono come appestati. A casa di Smith arrivano minacce e pacchi pieni di escrementi, l’esercito lo espelle per indegnità. A casa di Carlos minacce telefoniche a ogni ora del giorno e della notte. Sua moglie si uccide. Solo molti anni dopo li riprenderanno a San José, come insegnanti di educazione fisica. E nel 2005 Norman sarà con loro, per l’inaugurazione di un monumento che ricorda quel giorno in Messico. Norman in Australia viene cancellato. Supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 e 5 quello per i 100, ma a Monaco ’72 non lo mandano. Nessuna spiegazione. Gioca a football ma smette per un infortunio al tendine d’Achille, rischia l’amputazione di una gamba. Insegna educazione fisica, svolge attività sindacale, arrotonda in una macelleria. Il più grande sprinter australiano non è coinvolto in Sydney 2000 né tantomeno invitato (col suo 20″06 avrebbe vinto l’oro). Sofferente di cuore, muore il 3 ottobre 2006. Smith e Carlos vanno a reggere la bara, il 9 ottobre. Non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, erano tre esseri umani. «Sono affari vostri», poteva dire Norman, ma non lo disse e non si pentì mai, e gli altri due nemmeno. Tutte cose che la foto non dice. | Gianni Mura, la Repubblica, 28 giugno 2012
Una volta la lista riguardò te. Un gioco in macchina, nel centro di Milano, poco prima di un gelato, al semaforo. Non i pezzi più belli, come si fa, ma quelli che ricordi più volentieri, quelli a cui sei più affezionato. Gli incontri. Un bell’incontro. Non ci pensasti molto. Un viaggio a Sassari, in casa di Rodica Popa, pallavolista romena che – scrivesti – “faceva i buchi per terra” e che era finita a giocare in Serie B. “Come se Maradona fra dieci anni giocasse nel Mantova”. Era il pezzo a cui ti sentivi più legato.
  Quarto piano. In cucina, una poltrona che ha vissuto tempi migliori, un televisore, una cagnina Yorkshire (si chiama Mary, è un po’ che mi segue, è come se avesse cinquant’anni), due libri. Sono La disunità d’Italia di Bocca e L’intrigo di Pansa. Salta fuori che lei legge sempre Repubblica, avrei dovuto notare la pila di giornali all’ingresso e non solo dettagli che mi deprimono, la lattina d’olio di semi, il vino in tetrapak. Lei chiede com’è Zucconi, se lo conosco, e che tipo è la Audisio, rispondo e la rivedo agli europei di Tallinn nel ’69, eletta miglior giocatrice. Mi sembra più bella adesso che ha dei fili grigi, non di quella bellezza che porta a Domenica In ma un po’ da donna del West, di quelle che con una mano guidano il carro e con l’altra sparano, che sanno cuocere i fagioli e disinfettare le ferite, che hanno tanta vita addosso da poter camminare curve, ma camminano dritte e non abbassano mai gli occhi.
Quello che sapevo già: squalificata a vita per doping nel ’70, graziata dopo due mesi, fuggita dalla nazionale romena nel ’71, 5 scudetti. La tv è accesa sulla guerra, lei dice che è contenta di non avere figli e che comunque resterà aperta la questione palestinese. Si spegne la tv, il cane dorme, cominciamo. 
« Con una mia amica sognavamo di vivere in California, io ero Joe e lei Jess. Anche adesso ci chiamiamo così, lei ha due figli ed è grassa, quasi tutti a Sibiu lo sono a forza di passare gli inverni a pane e grasso di maiale. Poi in California ci sono stata con un amico, in macchina fino all’ Utah, una delusione. Così ho deciso che i sogni non si devono realizzare e che alla mia età è meglio fare dei programmi che dei sogni.   Agli europei di Reggio Emilia bisognava battere la Germania Est per arrivare seconde e qualificarci per le Olimpiadi. Io ce la metto tutta, so di essere il capro espiatorio ideale. Perdiamo 17-15 al quinto set e negli spogliatoi decido di scappare. Ho l’indirizzo di una ragazza che m’ha chiesto lo scambio di cartoline. Siamo in fila indiana, scortate dai dodici accompagnatori, chiamiamoli così. Chiedo il permesso di andare in farmacia a comprare degli assorbenti interni, per qualunque altra cosa ci sarebbe andato uno di loro, speravo si vergognasse, mi è andata bene. Appena voltato l’angolo scappo, a piedi arrivo a casa della ragazza, mi tengono nascosta fino alla fine degli europei, poi vado a Torino. 
  Vado a casa di Toni, un tipo sui 40, fa il geometra, l’ho conosciuto alle Universiadi. Ci resto sei mesi. In tutto questo tempo scrivo dieci lettere al giorno in Romania, amici, parenti, ma nessuna arriva a casa mia. Esce su un settimanale una storia strappalacrime sulla mia fuga d’amore, ma quale amore. Cioè, Toni vorrebbe sposarmi ma io non voglio sposare lui. Alla questura di Torino sono molto gentili, mi accompagnano al campo profughi di Padriciano, sopra Trieste. Provo a spiegare che in Romania avevo tutto meno che la libertà. Il campo profughi, casermoni con letti a castello, è stupendo, Trieste è un sogno, ci danno qualche soldo, entro in un bar e metto una moneta nel jukebox, sento i Pooh, mangio un piatto di spaghetti al burro e sono felice. Dalla Romania mi fanno sapere che sono stata processata in contumacia per alto tradimento e condannata a sei anni.E mi sono sposata con Mario, il camionista. Un armadio. Io ho sempre visto il matrimonio come una trappola, ma perché non provare? Non l’ho fatto per avere la cittadinanza italiana, non era ancora il periodo delle straniere che sposano i vecchietti dell’ospizio. Abbiamo fatto la luna di miele col Tir. Un giorno. Lui diceva A e io B. Io ho il mio carattere ma forse perché funzionasse bastava che Mario mi lasciasse un’illusione di libertà, invece niente, il mio tempo doveva essere tutto suo. Ce ne siamo dette tante. E anche date. Ci siamo separati, siamo ancora separati, nessuno ha chiesto il divorzio. Dopo non so. Allenare forse, ma dove, come, a che condizioni? Ci penserò quando sarà il momento. Oppure fare la tour-operator, in Romania ci sono posti stupendi, come i laghi salati vicino a Sibiu, ormai posso andarci quando voglio, c’è stata un’amnistia. O un’attività di import-export con la Romania. C’è solo l’imbarazzo della scelta, manca tutto, dalle mutande ai succhi di frutta. Non mi sento una mercenaria, cinque squadre in vent’anni, e so che avrei potuto guadagnare di più se avessi un’altra testa, ma io non penso a quello che guadagnano Baggio, Zorzi o Radja, è una vita che mi accontento perché solo così è possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. Tutti gli atleti più forti arrivano qui, è naturale, sono pagati bene. Io sono stata una delle prime e penso che lo sport ha forse un peso eccessivo nella vita di tutti i giorni ma non voglio criticare, né tantomeno sputare nel piatto in cui ho mangiato, anche nei due anni in cui non potevo giocare. Avessi guadagnato di più, mi potrei permettere di impiantare un allevamento di Yorkshire o almeno un rifugio per i cani abbandonati». 
È’ felice? «Mai conosciuto nessuno a 40 anni irrealizzato come me, ma nemmeno che ha così vissuto come voleva». Forse neanch’io, se può servire. | Gianni Mura, la Repubblica, 30 gennaio 1991

 

  A proposito di case. Un collega molti anni fa ti raccontò di averla cambiata, il suo nuovo vicino aveva saputo che lavorava a Repubblica e gli aveva domandato: non è che per caso lei è Giannimura? Ti faceva morire dal ridere il fatto che quello sostenesse di avergli risposto di sì, “mi stai costringendo a vivere nella menzogna, ho dovuto scrivere Giannimura sul citofono, ora non andare più in televisione che mi sputtani”.
In televisione dicevi di andarci meno possibile perché così nei ristoranti che recensivi non ti avrebbero riconosciuto. Prenotavi sotto falso nome, Moretti, che poi sarebbe un piccolo Mura, adesso si può dire, adesso Moretti non prenota più. Quando ce n’era un locale nuovo da scoprire, capitava che ti facessi accompagnare. Se non ti piaceva finiva lì. Non stroncavi. Perché dovrei stroncare il lavoro di qualcuno, dicevi, sono soltanto uno a cui non è piaciuto. Se ti piaceva invece ti svelavi. Ti facevi dare una foto dello chef e una copia del menu. Una volta, un collega tornò per conto suo a distanza di qualche mese nel posto dove eravate stati insieme. Il titolare si ricordò di te, della tua rubrica su Il Venerdì, gli raccontò che gli avevi fatto aumentare del 30% i guadagni, che ora la gente veniva da tutta Italia, alla fine disse: mi saluti il babbo. Ne sorrideste insieme.
  «Ci hai donato poesia pura, traslandola sul ‘tuo’, nostro mondo» ha detto il presidente Malagò. Quando morì Brera, raccontavi, dal mondo dello sport al suo funerale arrivò solo Fabio Capello. Che razza di scherzo hai fatto, che hai combinato – e qui con una certa propensione alla retorica uno potrebbe aggiungere: che dribbling, che fuga – adesso nemmeno ti si può venire a salutare. Quanti espedienti, lo vedi Gianni, i trattini, gli incisi, i giri di parole, per non andare dritti a dire che non ci possiamo nemmeno abbracciare. Una volta hai scritto: “C’è gente che piange ai funerali bellissimi”. I tweet, Gianni. Ci sono i tweet però. Fatti una risata, sei al primo posto nei trend topic, sono soddisfazioni, se non top player oggi lasciaci almeno dire trend topic.
  Siamo stati ricchi, fortunati, privilegiati: abbiamo potuto leggere le tue parole. Vai via ora, mentre quello sport che da aedo del nostro tempo ci hai cantato, è chiuso. Oggi superiamo i confini di una tristezza che sembrava sconfinata. Ti sia lieve la terra, Maestro | @ Mauro Berruto
Salutiamo un uomo libero e di grande umanità. Ti sia lieve la terra, Gianni. | @ Mediterranea Saving Humans
Felice e onorata di aver avuto la possibilità di conoscerti e chiacchierare insieme… | @ Federica Pellegrini
Non lascia eredi. Lascia un’eredità: la forza del racconto, che non sarà mai battuto dalla televisione, la forza delle parole, scelte con precisione, la forza della grande cultura popolare. | @ Enzo D’Orsi
Non mi resta che piangerti così, in questo tempo ingrato. Addio maestro, immaginandoti al fianco di Brera e Veronelli. I tuoi scritti restano per insegnarci ancora qualcosa. Un tenero pensiero a Paola e al tuo primo allievo Luigi. E ti sia lieve la terra. | @ Omar Pedrini

 

Il tuo papà    Nell’ormai lontano 1963, trovandomi per lavoro in Lombardia, seppi che da quelle parti c’era un liceale che prometteva molto come scrittore. Me lo disse il comandante della stazione Carabinieri di Cesano Maderno, maresciallo Antonino Mura, che con molto ritegno svelò che si trattava del figlio Gianni. | Vanni Loriga, Corriere dello sport-Stadio

 

  Aspetta, solo un attimo, non te ne andare ancora. Guarda cos’hai scritto quando morì Poulidor: “Era Poupou, parola che mi è sempre andata di traverso, è un nome da barboncino, non da campione. La uso adesso che è morto, ma a lui stava bene, e poi in Francia va così: Trousselier era Troutrou, Cristophe era Cricri, Pingeon Pinpin, Jalabert sarebbe stato Jaja. Nel vocabolario dei francesi è entrata la parola poupoularité, perché nelle sue sconfitte, dovute a tranelli o a una jella pazzesca, cosmica, roba che nemmeno Paolino Paperino, c’era la grandezza di Ettore che soccombe ad Achille, al destino cinico e baro, alle congiure, alle stelle contrarie”. E per Felice Gimondi: “Un altro hombre vertical che se ne va”. Un titolo che hai dato a pochi. Sei persone negli ultimi 36 anni. Walter Bonatti sì, Alfredo Martini pure, Giacinto Facchetti, Sergio Endrigo, per il quale “le parole dell’addio in questo momento non vogliono venir fuori”. Ho trovato anche due mujer vertical passando il giorno di ieri con gli occhi nell’archivio dei tuoi pezzi, Teresa Sarti in Strada e Paola Santoro. Hombre vertical era Gigi Riva, che intervistasti per i suoi 70 anni scrivendo che il suo “era un calcio impastato di ironia, di rabbia, di umanità. Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti come nella canzone di Conte. Non tornerà più perché il castello è cresciuto e le fondamenta sono sempre bugie”. Quanto cazzo scrivevi bene, Gianni. Chissà che avresti combinato per i 50 anni dello scudetto del Cagliari, la Sardegna delle tue radici, il tuo papà.
Aligi dice che “ogni volta che lo chiamavo per dirgli: Gianni, hai scritto un pezzo magnifico, sai?, beh, sentivo che quella carezza arrivava, sempre, e sempre veniva apprezzata e conservata lì dentro quel grande cuore che adesso lo ha tradito, ci ha tradito tutti, irrimediabilmente, lasciandoci qui così, nudi, fragili, senza un pezzo troppo grande per poterne fare a meno”.
Quanti ce ne saranno stati di pezzi tuoi così? Saverio ha scritto che ora esistono i Senzamura, la stessa cosa ha pensato il tuo amico Gigi. “Caro Gianni, finiranno anche questi giorni maledetti e troveremo il posto e il modo di ricordarti tutti insieme. Noi senzabrera, uno dei tuoi tanti fior di conio, da oggi anche senzamura. Caro Gianni, ti ricordi Siviglia ’82? Ci conoscevamo di vista, ma fu a quel Mondiale che diventammo amici se non direttamente fratelli. Il vino la sera ovviamente lo sceglievi tu, e ricordo che ti raccomandavi, cosecha joven, annata recente: avremmo avuto poi tanti, tanti anni per passare all’invecchiamento.
Adesso per esempio, sto andando a Barbaresco, un 2004 d’autore in memoria tua e di quell’altro Gianni: non ti ho mai chiesto cosa bevesti quel giorno a Malta per scrivere il coccodrillo di Brera, il capolavoro assoluto della tua carriera.
Adesso è tardi. E sì che ancora tre giorni fa, avendoti detto che la voce mi sembrava tonica, ti sei messo a cantare una canzone sconosciuta: come fai a non ricordarla, l’ha cantata Betty Zambruno la sera del tuo matrimonio e io pirla che ti ho anche fatto da testimone. Quanta vita bella abbiamo passato insieme. Ma te le ricordi le sfide a scopa in tribuna stampa con le telecamere che passavano a riprenderci? E la volta che ti dissi, settembre ’95, faccio un programma notturno su Raitre, ti va di venirci? Non mettermi in difficoltà, sai che la tv non è il mio genere. Ma è una cosa diversa, si beve e si fuma pure. Beh, allora. Era un sardo testardo, che fa anche rima. Ma di una generosità sconfinata. Non ha mai detto di no a una serata, una conferenza, una richiesta di prefazione: sapeva di essere stato baciato dal talento e sentiva il bisogno di ricambiare. È stato senza dubbio alcuno, l’unico erede possibile di Gioanbrerafucarlo. Ma questo gli è sempre costato uno sforzo in più: quello di coltivarne per primo la memoria, e l’irripetibile lezione, tenendosi alla larga dall’imitarlo”. (Gigi Garanzini, la Stampa)
Dovranno fare allora i senzamura quel che hai fatto tu con Brera. Custodirti e raccontare di te a questo orribile mondo nuovo che si avvicina. Tu che avevi una delle sue ultime cinque macchine per scrivere rimaste in giro per l’Italia, ma hai detto che non l’hai mai toccata, mai battuto neppure un tasto – tasto dicesti, non carattere. Però di Brera, perdona, bisogna che parliamo un’ultima volta. 
Mario, che ti portò a Repubblica, stamattina sta raccontando questo: “Gianni aveva una facilità di trovare parole che nemmeno Brera aveva. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare tutti e tre insieme. Io guidavo la barca, loro mettevano il vento. Era meno forte di Brera, che quando voleva ti annientava con una smorfia. Mura era sempre dalla tua parte, davanti al mondo o a una minestra. Aveva parole e sintesi per tutto, le mescolava e ne uscivano filastrocche ma anche poesie purissime, fulminanti. Era possessivo, infantile, bisognoso di cura, di una luce dagli altri che ne illuminasse la diffidenza, forse la solitudine. È inutile paragonarlo a Brera, era un’altra cosa. Ed è una sciocchezza che il giornalismo sportivo debba permettersi un solo maestro. Brera era fantastico e provocatorio, Mura era quasi snob nel suo bisogno di popolo. Era un raccontatore puro, un ricercatore di dettagli, non un tecnico. Dava il meglio di sé nel ciclismo e nelle gare tra individui. Dove ci sono le facce. Ancora tanto tempo fa, quando sembrava che stessi per diventare direttore della Gazzetta, ci fermammo a costruire i nostri ruoli futuri come due adolescenti. Io a pensare e lui nel mondo a raccontare, prima firma assoluta. Sembrava vero, poi me ne andai io, impaziente come lui, sempre un po’ traditore.
Ci siamo persi negli ultimi anni, non eravamo più spontanei. Da quando anch’io scrivevo ci sentivamo un po’ avversari.
Veniva da ridere, ma si era spezzato l’equilibrio dei ruoli. Ed eravamo diventati prima uomini e poi anziani. Più che noi, era cambiata la commedia. Gli ho voluto bene, qualcosa di forte, perché sentivo che lui provava la stessa cosa per me. Spero di non averlo deluso troppo. Non era un uomo semplice. Una volta che venne in redazione a Roma e cercava un po’ di coccole, non potevo esserci perché stavo chiudendo un supplemento. Nell’attesa lui reagì con le parole, mi mandò questa filastrocca (o poesia?). La conservo ancora, c’era tutto Gianni. Diceva: Sconcerti smorza / il video e l’audio, / c’è solamente/ per il sor Claudio. / Ora pro Nobis/ è una misura,/ mai vista un’ora / per Gianni Mura.
Come diceva Brera e come scrivevi sempre anche tu, ti sia lieve la terra amico mio.  (Mario Sconcerti, Corriere della sera)
  Pier sta ricordando del tuo primo pezzo scritto in Gazzetta e della giornata a San Zenone Po di un anno fa, quando il Giro passò dal paese di Brera per ricordarlo a 100 anni dalla nascita. “Gianni ricordava spesso il suo primo pezzo su Germano, brasiliano del Milan. Ci mise dentro tutto, mitologia e poesia, citazioni e dialetto… Gualtiero Zanetti appallottolò il pezzo, lo gettò nel cestino e disse: «Con questo pezzo i magutt della Bovisa ci fanno un cappello. Scrivi qualcosa che tutti possano capire». Gianni fece tesoro di quel messaggio. Un anno fa ci è capitato di passare una giornata con Gianni Mura al Giro d’Italia. Destinazione San Zenone Po, a casa di Brera in occasione del centenario di Gioann Brera fu Carlo… Era una sorta di ritorno alle origini, alle radici di una storia che lo ha visto protagonista di un’epoca. Gianni volle concludere la serata in una vecchia trattoria sul Po che gli ispirava i racconti più dolci, lì sul confine con la nostalgia”. (Pier Bergonzi, la Gazzetta dello sport)
Lo sappiamo che non ti va dire sempre di Brera, stavolta forse bisogna ragionare su cosa vi ha separato. Lui si era immedesimato in Coppi, un eroe innalzato dalla tragedia, tu hai preferito Pantani, un eroe caduto. Lui si era legato a Rocco e al catenaccio, tu non eri ideologico, ti sono piaciuti Sacchi e Trapattoni, potevi farti piacere i santi (Tommasi) e i maledetti (Galeone), bastava che avessero qualcosa da dire. Nel tuo pantheon c’era Angelillo che da ragazzo ti aveva addirittura spinto a cambiare la milanese per cui fare il tifo, più Maradona che Pelé. Brera aveva in antipatia Napoli, tu al telefono cantavi Michelemmà e Pusilleco Addiruso – anche qualche giorno fa – e recitavi a memoria ‘Nu Pianefforte ‘e notte e volevi sapere come si scrive Ha da’ passa’ ‘a nuttata, “ma nell’originale, controlla come la scrisse Eduardo per favore”. 
Lo vedi anche tu che notte e che tempi, nemmeno la Palla di Lardo li aveva previsti. Se te ne vai, come comincia primavera? Quanto all’estate non è mai iniziata il 21 giugno. L’estate iniziava quando partivi per il Tour. Ti sei portato due stagioni in un giorno solo. 
Shall I at least set my lands in order?
London Bridge is falling down
falling down
falling down
Eppure come dicevi? Mai paura.
Grazie, Gianni, allora. Mai paura

1 commento su “La prima domenica senza Gianni Mura

  1. Luca Trogni Rispondi

    Un bellissimo mosaico, fatto con amore e stima, per un grande giornalista civile di cui sentiamo e sentiremo la mancanza.

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