Dal basket a Er Pantera: lo sport di Vittorio Gassman

C’erano analisi e c’erano aggettivi, come sempre succede nel giorno degli addii. 
Bello, eclettico e vanitoso, scrisse Tullio Kezich su Corriere della sera.
«Un meraviglioso antipatico» nei suoi film, disse Dino Risi, mentre Alberto Sordi ne ricordava «la riservata gentilezza» e Mario Monicelli spiegava che in fondo «strafaceva per nascondersi»
Per tutti, ma proprio tutti, e per sempre: il Mattatore. 
Vittorio Gassman è stato un ventaglio. 
Ognuno dei grandi volti della commedia all’italiana era una maschera.
Sordi è stato la medietà, Tognazzi l’ambiguo, Manfredi lo stralunato, l’unico – disse Comencini – che poteva sembrare credibile nel fare da padre a un pezzo di legno. 
Gassman è oggi nell’immaginario collettivo l’apparente euforia degli improbabili, degli esuberanti, ma in uno spettro ampio, così ampio che ha potuto contenere gli hidalgo e i furfanti, un Brancaleone, un Otello e in voce un re Leone – che poi era un pretesto per fare ancora Amleto, in modo alternativo.
Nel primo giorno senza di lui, Lietta Tornabuoni definì su la Stampa il suo personaggio-tipo “un magnifico cialtrone”.
Ecco. 
Se allora per noi Gassman è tutto questo, il viaggio deve partire da Er Pantera.
Giuseppe Baiocchi, detto Peppe. Il pugile suonato de I Soliti Ignoti che gli amplia la carriera dopo tanto riso amaro, tanto Kean e Cirano, tanta tragedia greca. 
È stata la boxe del film di Monicelli a darci più Gassman di quanto all’inizio ce ne fosse, mentre alla fine l’ha accompagnato il calcio, come ha raccontato qualche giorno fa suo figlio Alessandro su la Repubblica. 

 

  Il 29 giugno del 2000 fu una giornata drammaticamente indimenticabile, con aspetti da commedia su cui anche papà avrebbe scherzato. Diletta mi chiama, prendo il motorino e corro a casa loro in via Brunetti. Trovo lei, Jacopo, quelli delle pompe funebri e Nadia Cassini – non so se abitasse nel palazzo, non l’ho mai ricostruito – che piangeva più di Diletta. Quelli dell’agenzia parlano del morto senza nessun afflato: dove lo mettiamo, arriva gente, capite, serve il fresco. Poi arrivano Emanuele e Paola. Con papà ci eravamo salutati la sera prima, stava male ma non peggio del solito, aveva problemi polmonari. Tutti distrutti. C’era la semifinale degli Europei di calcio, a un certo punto diciamo tra noi: gioca l’Italia. Comincia una pioggia estiva tropicale, impressionante, Totti fa gol tirando il rigore col famoso “cucchiaio“. Una volta ho incontrato il capitano e gliel’ho detto: “In una delle giornate più brutte della mia vita, per un secondo, mi hai fatto dimenticare quello che stavo vivendo”. Anche papà avrebbe apprezzato quel gol.
di alessandro gassmann, la Repubblica, 25 giugno 2020

 

Chissà se Vittorio Gassman si è mai accorto di quante volte i giornalisti sportivi lo hanno evocato. Il Sorpasso sarà stato grosso così nei titoli grafici delle pagine un migliaio di volte. C’è la partita di un ex avvelenato con la sua squadra di una volta? Zac: C’eravamo tanto amati. Una difesa che prende 4 gol o una squadra che perde sempre? Un’armata Brancaleone. E per un’altra che sgraffigna in qualche modo la partita, ci scappa un riferimento in attacco di pezzo all’audace colpo dei soliti ignoti. 

 

  Lo sport è stato una stagione per me importante. Importante sul piano fisico, ma anche con dei riflessi, dei trasalimenti e delle analogie nel campo della mente e delle sensazioni. E questo ritorna, ritorna fatalmente. Infatti a me è sempre piaciuto in teatro faticare, sostituire col teatro lo sport. … 
Io ho come buona parte dei timidi di natura, una forte aggressività. Tornando allo sport, io ho avuto una piccola carriera di cestista, ma giocavo malissimo a pallacanestro, non ho mai avuto una tecnica, non ho mai saputo capire veramente l’arabesco tecnico del gioco, il passaggio smarcante: avevo soltanto un tiro molto preciso e soprattutto avevo un’aggressività mostruosa, tant’è vero che il mio rimpianto, in termini di sport, è di non aver praticato uno sport che fosse quasi soltanto puro agonismo. Rimpiango per esempio di aver cominciato solo dopo i quarant’anni, cioè ormai monco per sempre, a praticare il tennis, che dopo il pugilato è considerato lo sport più duramente agonistico, perché è come mettersi di faccia uno all’altro e darsi un cazzotto per uno finché uno dice basta. Il tennis era veramente, credo, il mio sport, tant’è vero che col tennis, imparato in età tardiva, ogni tanto riesco a mettere sotto della gente che gioca inifinitamente meglio di me.
di vittorio gassman, in Il teatro e il cinema di Vittorio Gassman (di Giacomo Gambetti, Gremese editore)

 

 

Nel descriversi come una specie di Roberto Premier, quella che Gassman chiama piccola carriera da cestista comprende comunque una chiamata in Nazionale e una partita decisiva per lo scudetto il 14 giugno del 1942.
Gassman giocava per la Parioli Roma, altrimenti detta Bruno Mussolini, ottava nel ’39, quinta nel ’40, terza nel ’41. Nella storica palestra veneziana della Misericordia, contro il più forte giocatore italiano dell’epoca, Sergio Stefanini, i romani persero per 33 a 28 dalla Reyer. Gassman avrebbe detto: «Giocai malissimo, ero poco allenato». Segnò tre punti, 1 su 7 al tiro. 
Aveva cominciato a giocare al liceo Tasso tra i 14 e i 16 anni. Più di una fonte testimonia la sua crescita improvvisa, in muscoli e in altezza (venti centimetri), fino a meritarsi il soprannome di Gallinaccio
Nella Nazionale universitaria aveva giocato un mese prima contro l’Ungheria (34 a 17 per l’Italia), sul campo in terra battuta, in via Antonelli ai Parioli. Poi la Nazionale maggiore. Che giocatore era?

 

  Pivot ruvido, dai gomiti appuntiti in area pitturata e una buona dose di cattiveria sportiva, sopperiva a lacune tecniche. Non certo il tiro, eseguito con elegante movimento ad una mano (fondamentale “rubato” da Bovi), adagiando la palla, quando l’angolo lo permetteva, all’amato tabellone. Un’ascesa nel mondo del basket che non regalerà scudetti a Gassman ma la convocazione in Nazionale sì, prima quella universitaria e poi quella maggiore ahimé troncata dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale. Ed è proprio sull’esordio azzurro che il celebre attore volle soffermarsi in una vecchia intervista a sfondo teatrale: «Io a Trieste ho ricordi cestistici molto importanti, citalo perché è la cosa più importante, viene prima di tutto». Cioè? «Ricordo la palestra della Ginnastica Triestina, mi sfugge la via dove fosse ubicata, storico teatro in cui venni a giocare due volte col Parioli, vincendo una volta e perdendo l’altra». Ma c’è di più come si evince dall’incalzante ed entusiasta testimonianza del cestista/attore: «Sempre alla Ginnastica Triestina esordii con la nazionale maggiore, contro la Germania». Al momento dell’intervista la palestra citata era sede di pomeriggi danzanti, e stupito della cosa Gassman regalò una battuta ad effetto alla avvenente giornalista: «Beh, allora vorrà dire che la porterò a ballare». Fuoriclasse.
di raffaele baldini, Superbasket, 25 marzo 2019

 

  “Curiosamente – ha scritto Mario Arceri in La leggenda del basket – l’uomo che sarebbe poi stato il più grande interprete dei drammi di Shakespeare in Italia, di basket e delle sue esperienze sportive non volle quasi mai più parlare. Lo ricordiamo all’Ymca, alla fine degli anni Settanta, ospite d’onore in un convivio riunito per festeggiare le vecchie glorie del basket romano, soddisfare con molta reticenza la legittima e rispettosa curiosità del giovane cronista. La spiegazione l’ha forse data Stefano Stagni, nel volume pubblicato vent’anni fa da Fip e Lega per i 60 anni del campionato di Serie A, ricordando che fu una critica della Gazzetta dello sport – che addebitava una sconfitta del Parioli «alle luci della ribalta che avevano accecato Gassman» (aveva appena fatto il suo esordio in teatro, nella Nemica di Niccodemi, al fianco della Borelli) – a convincere il Mattatore ad abbandonare il basket”.

 

  Il ciclismo è uno sport antiestetico, ingrossa le cosce… meglio il biliardo
Bruno Cortona / Vittorio Gassman in Il Sorpasso

 

  Ragazzo, negli anni del Tasso organizzava in casa delle olimpiadi, tracciando col gesso delle lunghe piste nelle stanze dell’appartamento insieme al coetaneo Luigi Squarzina e ad altri amici; giornate e giornate venivano dedicate a gare sportive di ogni specie, a uso domestico nelle dimensioni e nei mezzi, ma con regolamenti ferrei e inequivocabile impegno. Da liceale Gassman praticò intensamente la strada dello sport, specialmente pallacanestro, ma anche calcio, atletica, scherma. «Se in quegli anni lo sport fosse stato veramente professionistico – mi disse una volta Fulvio Ragnini, compagno di squadra di Gassman nella pallacanestro Parioli e nella nazionale – difficilmente Vittorio l’avrebbe abbandonato per il mondo dello spettacolo»: e aggiunse: «Era superiore a tutti proprio per la passione e la volontà»
di giacomo gambetti. Vittorio Gassman (Gremese, 1999)

 

I suoi pugili

 

  Er Pantera compare nel 1958.
Monicelli fa la parodia del pugile hollywoodiano, del sogno americano, della tipica sequenza narrativa fatta di indigenza, riscatto e gloria. 
Peppe si fa vivo la prima volta sullo schermo in accappatoio, si fascia le mani e mette i guantoni. La banda lo va a cercare perché accetti di farsi portare in prigione al posto di un altro per centomila lire. Non se ne parla. «Senti, leggiti i giornali domattina, a me, me trovate nella pagina sportiva, all’avversario mio negli annunzi mortuari». Peppe va al tappeto dopo 10 secondi. È anche lui uno sbruffone gassmanesco ma malinconico, sottoproletario.
“Ne I soliti ignoti quindi – ha scritto Graziano Tassi in La nobile arte: il pugilato nel cinema italiano dal dopoguerra all’inizio degli anni 60 sul numero 23 della rivista Italies – la boxe serve innanzitutto alla costruzione di un ambiente sociale, quello della periferia romana tra piccola malavita e poveri disoccupati dal cuore d’oro. In seguito, oltre alla dimensione sociale ed ambientale, il pugilato contribuisce alla creazione del personaggio perdente e fallimentare, a mettere ancora più in risalto la sua inadeguatezza e la sua sfasatura. Peppe rappresenta il nuovo tipo di italiano medio-basso che si affaccia alle soglie del miracolo economico, che comincia ad avere smanie di grandezza ma che è fondamentalmente incapace di soddisfare. Non per niente, il film si chiude con il mancato pugile e il mancato ladro che, all’alba, dopo il colpo andato male, si lascia trascinare, suo malgrado, in un cantiere dove lo faranno lavorare”. 

 

  Gassman ritorna sul ring cinque anni dopo con Dino Risi, nell’ultimo episodio de I Mostri, dal titolo  La nobile arte. È Artemio Altinori, un ex pugile ritirato che si è dato alla ristorazione sul litorale laziale. Così il manager Enea Guarnacci prova a convincerlo a combattere ancora, un ultimo incontro, deve solo lasciarsi cadere al tappeto alla prima ripresa, ci guadagneranno entrambi. Guarnacci ha sullo schermo tutta l’oscenità di cui sapeva essere portatrice la faccia di Tognazzi. Solo che sul ring Artemio vuole sentirsi quello che era stato, non va giù, prosegue, incassa e alla fine del film è sulla spiaggia, in carrozzina, a giocare con Guarnacci e un aquilone. “Una malinconia quasi insostenibile” ha scritto Tassi. Dino Risi disse: «Monicelli con I soliti ignoti, per paura di non riuscire a farlo accettare come comico, lo aveva trasfigurato, lo aveva reso brutto, gli aveva messo addosso una maschera. Con Il sorpasso ho avuto il coraggio di presentarlo con la sua faccia, quella di antipatico, in un film comico». La macchina alla cui guida Gassman fa Gassman è una Lancia Aurelia B24 Spider, disegnata da Battista Pinin Farina

 


 

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L’incursione più originale è del 25 febbraio 1959. Quando Gassman dedica allo sport una delle puntate della trasmissione tv Il Mattatore. Un programma, per Aldo Grasso, di «contaminazione dei generi e dei registri», «un segmento televisivo che propone frammenti di programmi diversi tenuti insieme dal carisma del conduttore. E siccome fu il primo a inventarli, fu anche il migliore».
È una puntata con i testi di Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson. Nella sigla Gassman parte per uno sprint, calcia in porta, getta il peso. Il filo conduttore del programma: Giove-Gassman manda i suoi figli in Italia a controllare lo stato di salute dello sport, a un anno dalle Olimpiadi di Roma. Con Paolo Ferrari, Marina Bonfigli, Hélène Rémy, Tiberio Mitri. Quelli tornano e riferiscono che gli uomini lo stanno snaturando e soffocando. E mentre Giove ordina di spedire un cablogramma agli sbruffoni degli Harlem Globetrotters per sfidarli, Mercurio fa partire i filmati che hanno girato sulla terra, a partire dal calcio, “un gioco un tempo svolto dalla testa dei dirigenti e dai piedi dei giocatori, oggi i piedi hanno dato la testa ai giocatori e i dirigenti più che con la testa ragionano con i piedi”. 

 

 

Colpo di scena. Qui Gassman è truccato da presidente di una squadra di calcio (la Continental) con una dentatura evidente e la erre moscia. Firma un pallone ricordo “per i sordastri della Valtellina” e fa palleggiare in salotto alcuni campioni. E sono campioni veri. Ospiti del programma. Ora, la cosa è particolarmente interessante. Perché Pesaola infila al massimo cinque palleggi, non sembra un virtuoso, Vinicio se la cava meglio e ne fa una ventina fermandosi la palla sul mocassino, mentre Gassman regge alla grande uno scambio di palleggi di testa con John Charles. Alla fine il presidente con la erre moscia regala modellini Cabriolet ai suoi campioni. Chiede di eliminare le strisce bianche dalle maglie della squadra perché il bianco è «così crudo, non telegenico, stona nelle riprese televisive» e chiama uno stilista parigino, però oriundo, «regolarmente tesserato», per creare una divisa avorio e pervinca. Ha un portiere che si chiama Gozzi ed è detto Kamikaze. Si lamenta che i giocatori sono ormai rammolliti da troppi ricevimenti e tiene un memorabile monologo amletico sul dilemma della retrocessione. Dove To Be or Not To Be diventa B o non B: “Questo è il problema. Se sia più nobile soffrire nell’animo le reti e i rigori di un ingiusto arbitraggio o fare il catenaccio, contro un mare di avversari e contrastandoli coprirli di lividi, difendersi e rinunziare, nient’altro, con un ostruzionistico sistema dire: ecco, noi abbiamo posto fine alle doglie del portiere e alle mille cariche irregolari che sono retaggio della retrocessione. Ah, dribblare, palleggiare. Palleggiare? Pareggiare, forse. Ecco il punto che potrà forse sottrarci alla B, all’inesplorato dei continenti dalla cui frontiera non c’è squadrone che ritorni, ah questo è troppo, troppo deboli carni le vostre cosce si sono fatte, vili, in ritiro, in ritiro, in convento. Il resto è fuorigioco”. 

 

 

Essendo gli autori dei testi Ghirelli e Barendson, la cosa è due volte interessante perché in quegli anni i due erano in aperta polemica ideologica con Gianni Brera. Loro, la scuola napoletana, al fianco di Gino Palumbo, erano I teorici di un calcio diremmo oggi di proposta (“i giochisti”, ahia, e lo so), Brera invece si sa come la pensava: “Secondo la scuola napoletana una partita è divertente solo se si vedono molti gol. Se invece non si vedono molti gol, risulta noiosa anche quando viene giocata da ventidue grandissimi virtuosi della palla. Il concetto è abbastanza cretino”. 
Ghirelli sosteneva invece che “si gioca per lo 0-0 come si vota DC, realizzando una società fatta di furbizia, immobilismo, parassitismo, tenace conservazione dei privilegi”. 
Nella puntata del Mattatore, Ghirelli fa muovere al presidente Gassman su una lavagna magnetica la pedina dell’ala come se fosse un terzino, perché “il terzino poverino da solo si intimidisce, invece protetto da tergo diventa un leone. Ritmo palleggio spettacolo sono sciocchezze, sono fanfaluche, l’essenziale è la conquista del terreno”. 
Insomma, diciamolo: Gassman sfotte Brera.  

 

  Gassman era romanista. Nell’episodio Che vitaccia! de I Mostri, il suo personaggio è indeciso se restare al capezzale del figlio malato oppure andare allo stadio a vedere il derby. Ne I soliti ignoti i tifosi romanisti in trasferta a Milano sono interrogati in commissariato: “Con questo – dice l’appuntato – sono addirittura dodici i pregiudicati che stavano alla partita”. E Gassman risponde: “Solo 12 su quasi 1000 tifosi romanisti è una percentuale irrisoria. Fra i laziali è molto maggiore”.

 

Non c’è solo calcio nella puntata del Mattatore. Gassman regala un monologo sui pugili alla presenza di Sergio Caprari, campione europeo nei pesi piuma, medaglia d’argento ai Giochi di Helsinki nel 1952, e di Emilio Marconi, campione europeo dei medi leggeri. Poi accoglie Gino Bartali e lo intervista. «Sei proprio tu – gli chiede – o sei Tognazzi?». Bartali ha lasciato le corse da cinque anni. È il direttore sportivo della San Pellegrino che ha ingaggiato Fausto Coppi. A Gassman dice che i corridori hanno smesso di fare i sacrifici come all’epoca sua e allora gli escono i foruncoli. Brontola la sua frase più celebre (tutto sbagliato, tutto da rifare) e dice:«Il prossimo campionato del mondo si fa in pianura. Io lo farei correre a quelli che hanno approvato il percorso. Non è possibile correre un campionato del mondo in pianura». A Gassman che gli domanda se Fausto Coppi ha delle possibilità, risponde ridendo: «Noooo». Coppi in quel momento ha ancora 11 mesi di vita. 

 

Il programma è su Rai Play. 
Cinquanta minuti dopo 20 anni senza Gassman.
Per chi ne avesse voglia. 
Ma di Gassman si ha sempre voglia. 

 

 

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A cura di Angelo Carotenuto.
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