Sette trame alternative per Italia-Germania 1970

  | Sullo 0-0 Boninsegna non segna all’8’
Il rimpallo su Berti Vogts prese all’improvviso un’altra direzione, e quando un rimpallo segue traiettorie alternative una partita può finire in mille modi.
Boninsegna non lo immaginava e avanzava verso la porta di Sepp Maier pure stavolta, come sempre era avanzato per cinquant’anni nei filmati di Italia-Germania Ovest (nessuno lo dice mai che era solo la Ovest), cioè con quel solito carico di sicumera nel piede sinistro.
Aveva deciso di non passarla, di ignorare il resto attorno a sé, di non cercare con lo sguardo e neppure con un passaggio il vecchio amico Gigi Riva, così triste solitario y semifinal. 

 

Andò a infilarsi in mezzo a tre o quattro tedeschi impalati ai bordi dell’area di rigore come certi palazzi di periferia prima che si entri in città. Il pallone viaggiò verso il corpo del vecchio Berti e Boninsegna aspettò che gli tornasse indietro. Le cento e cento volte che Italia-Germania (Ovest) era stata raccontata, gli era sempre stato restituito dal caso sul sinistro. Stavolta no, ma Bonimba lo ignorava. Si dispose al solito epilogo e preparò il piede mancino quando il pallone si impennò e finì sghembo da un’altra parte, ballonzolando innocuo e mite verso le mani di Sepp Maier. E adesso?

 

E adesso – come sapeva bene Michael J. Fox perché così avevano deciso gli sceneggiatori di Robert Zemeckis – tutto il futuro dopo quel frammento deviato ne sarebbe uscito diverso. Senza il gol di Boninsegna all’8’ non si sarebbe battuta la palla al centro successiva, e ogni cosa sarebbe stata rabbuiata. Non ci fu più nulla da quel momento in poi del già noto e del già stranoto. Accaddero anzi eventi piuttosto imprevedibili, alcuni dei quali del tutto irragionevoli

 

Franz Beckenbauer, per esempio. Quando sentì dolore alla spalla dopo essere stato abbattuto fuori area, gli venne prospettata la possibilità di continuare la partita con la celebre imbracatura legata al collo, ma si impuntò. Disse che si trattava di un’alterazione delle condizioni di gioco, una insopportabile diseguaglianza. Gli pareva un cambio delle regole in corsa, così fece notare all’arbitro che la soluzione più equa sarebbe stata quella di imbracare la spalla destra a tutti i ventidue uomini in campo. Si discusse per circa un quarto d’ora, tempo che venne regolarmente recuperato, e alla fine si raggiunse il compromesso di lasciare le braccia entrambe libere almeno ai due portieri

 

Fu quello il motivo per cui non accadde più nulla di rilevante fino al 105’, una noia mortale, e niente neppure nei 30 minuti supplementari. Come previsto dal regolamento, per stabilire la squadra che avrebbe sfidato il Brasile in finale si andò al lancio della monetina.
Arturo Yamasaki lanciò 10 centavos nell’aria proprio mentre passava nel cielo messicano una pica pica bottanensis che l’afferrò col becco e se la portò via senza mai più restituirla.
La partita fu dichiarata sospesa e rimase senza esito.
Il titolo venne assegnato al Brasile per rinuncia. 

 

| Sull’1-0 Schnellinger non pareggia al 90’
Molti anni dopo, di fronte al plotone dei suoi uomini, il commissario Helmut Schön non si sarebbe ricordato di quel pomeriggio in cui Karl-Heinz Schnellinger lo aveva lasciato di ghiaccio. Sotto 0-1 per il gol di Boninsegna dopo otto minuti, i tedeschi si erano gettati tutti in attacco per il resto del pomeriggio messicano, ligi ai consigli di chi li guidava da sei anni: il CT di Dresda che aveva scelto l’Occidente quando avevano tirato su il Muro di Berlino, e che la sua casa a Est non avrebbe mai più rivisto. Schön da calciatore di gol ne aveva fatti in un discreto numero. Dalla panchina dell’Azteca urlava a Gerd Müller di stare più largo, più largo, esci ogni tanto da quell’area di rigore. “Ich bin Schön, du bist Müll”, io sono bellissimo e tu sei un’immondizia, gli diceva giocando con i due cognomi senza peraltro far ridere nessuno. 

 

Il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, la squadra andò a fargli gli auguri ma lui non riconobbe i suoi ragazzi. Sua moglie Anneliese chiese a Maier, a Overath, a Grabowski, un ultimo regalo: «Non tornate mai più, ve lo chiedo per favore». Schön non ricordava che nell’ultimo disperato tentativo nell’area italiana, quel pomeriggio Schnellinger aveva allungato un piattone al volo su una palla di Sigfried Held da sinistra, ma nella foga non aveva controllato il corpo nell’istante dell’impatto e il tiro lo aveva mandato all’incrocio dei pali, boing, il suono si era sentito nudo e soprattutto crudo perfino nello stadio pieno. Nessuno disse che era surreale. Quando dell’aggettivo fu trovata traccia in una cronaca uscita su un quotidiano locale del Nuovo Messico, le truppe rivoluzionarie del Orden de Periodismo mexicano fucilarono all’istante il responsabile. 

 

Per effetto di un futuro totalmente riscritto da quel momento in poi, quattro anni dopo la Germania Ovest non avrebbe vinto neppure il Mondiale in casa sua, eliminata nel girone eliminatorio dalla Germania Est, che andò invece fino in fondo e venne battuta solo in finale dall’Olanda.
L’uno a zero della semifinale mondiale in Messico aveva invece consentito alla Nazionale italiana di arrivare più fresca alla finale della domenica, a mezzogiorno in punto, contro il Brasile. Tarcisio Burgnich si era attaccato in marcatura a Pelé lacerandogli in più punti la maglietta e diventando fonte di ispirazione per un diciassettenne nato in Libia e di nome Claudio, piazzato a quell’ora di sera davanti alla tv nella sua nuova casa nel Comasco. La fresca Italia di Valcareggi riuscì a battere 2-o il Brasile in finale, doppietta di Gigi Riva, a fine anno Pallone d’oro. La Coppa Rimet sarebbe rimasta per sempre nel Museo del calcio di Coverciano.  

 

| Sull’1-1 Gerd Müller non segna al 94’
Supplementari. Il calcio d’angolo venne battuto come ogni volta in cinquant’anni di celebrazioni. Seeler salì a prendere la palla di testa e al solito la mise in area, dove Gerd Müller – prima che il calcio conoscesse Paolo Rossi e Pippo Inzaghi – fece il lavoro che in quel caso si doveva fare. Si sbranò il pallone prima di tutti e lo girò verso la porta italiana.

 

  Molti dei gol di Müller erano uguali. Erano figli di un equivoco iniziale. Il suo primo allenatore, studioso di filosofia, gli aveva riempito la testa di Kant. Non faceva che ripetergli quel nome ragionando di legge morale e cieli stellati. “Noi possiamo solo dal punto di vista umano parlare di spazio” ripeteva, e sembrava stesse considerando la maniera di occupare gli ultimi 16 metri del campo. Gli diceva, ogni volta che poteva, di cercare il gol alla maniera di Kant – e Müller, a essere onesti, si era pure impegnato a seguirne la lezione. Solo che aveva frainteso. Segnava spesso di rapina perché aveva capito Eva Kant, non Immanuel

 

Era giunto il momento dell’azione nella quale, appena entrato, Poletti si rivelava “il pezzo sbagliato in un meccanismo di ingranaggi esatti, ma proprio per questo la miccia che fa esplodere la magnifica follia”, come ha scritto Maurizio Crosetti in Quattro a tre (Harper&Collins Italia). 
Quella volta invece, nonostante Poletti, Albertosi si allungò più di quanto avesse sempre fatto, pareva Tiramolla con quel braccio capace di fermare il pallone sulla linea di porta, e tenne fermo il risultato sull’1-1. Considerata l’importanza del verdetto, anziché lanciare la monetina, l’arbitro dispose la ripetizione della partita. A distanza di due giorni si rigiocò. Fece gol Boninsegna all’8’, pareggiò Schnellinger nei minuti di recupero, e Yamasaki rimandò le squadre in campo per la terza volta dopo altri due giorni. L’avrete capito. Segnarono di nuovo Boninsegna all’ottavo e Schnellinger nei minuti di recupero, e andarono avanti così per altre tre o quattro volte, finché qualcuno scoprì che il calcio era finito chissà come dentro un film di Christopher Nolan co-sceneggiato da suo fratello Jonathan. Non ci fu verso di uscirne. In qualche piega del tempo Italia e Germania ancora stanno giocando. 

 

| Sull’1-2 Burgnich non pareggia al 98’
Gianni Rivera batté con dolcezza la punizione, come su un campo di calcio sapevano fare solo gli artisti. Ma per vincere le partite insieme ai cucchiai servono i coltelli. Held ne aveva uno – come dice la stampa anni 70 – sempre tra i denti. Anche se non era un difensore. Così si avventò su quel tocco delicato e stavolta non cileccò. Stavolta non rammollì all’impatto con la palla, non la lasciò sui piedi di Burgnich, altrimenti detto Burgnik in telecronaca da Martellini Nando, promosso narratore ufficiale della Nazionale italiana a Mondiale in corso. Burgnik stavolta la palla non la vide affatto, dunque non la calciò rapidamente e non la mandò alle spalle di Maier. Forse – forse – in questa quarta trama di Italia-Germania non era nemmeno in area di rigore. Non si può immaginare proprio tutto. 

 

Vinse comunque la Germania 2-1. Questa è una certezza. Fu un mezzo dramma per l’Italia del calcio. Giovanni Arpino, inviato per la Stampa ai Mondiali, scrisse al ritorno un romanzo su quel fallimento e lo intitolò Azzurro Oscurità. Anche per la Germania le cose precipitarono da lì in avanti. Stremata dai supplementari, crollò fisicamente in finale e perse contro il Brasile per 7-1. Fu una tale umiliazione che i tedeschi minacciarono di vendicarsi prima o poi, e di andare a vincere ai Mondiali con lo stesso punteggio un giorno al Maracanã. Una cosa buttata lì in un momento di frustrazione ma in tutta evidenza impossibile. 

 

| Sul 2-2 Riva non segna al 104’
Gigi Riva non ha mai più rivisto in televisione Italia-Germania, come scrivono Roberto Brambilla e Alberto Facchinetti in Quattro a tre (edizioni inContropiede). Per fortuna. Perché potrebbe capitargli di imbattersi altrimenti in questa versione, nella quale controlla con il sinistro, libera la gamba per il tiro e rombodituoneggia il pallone ben alto sulla traversa. Se l’è mangiato. Eppure si tratta della più tipica delle sue azioni, del suo calcio libero, da prateria, un calcio western, senza sella e senza briglie. 
Davanti al pareggio di Burgnich, poco prima, un giornalista di Die Welt, madre tedesca e padre italiano, aveva urlato: «Questo non è calcio, è una miseria pedatoria». Gianni Brera, seduto al suo fianco, aveva esclamato: «Diamine, è bella. Questa te la rubo». Il ragazzo gli aveva risposto: «Fai, tanto noi vi ruberemo la finale» (la storia per intero è qui: tanto è domenica che abbiamo da fare). Poi successe quello che successe. 

 

  Quando Riva svirgolò la palla tra Messico e nuvole, la panchina si mise le mani nei capelli. Sarà stato per la tensione, sarà stato per lo stress, sarà stato per la paura di non sapere più come poteva andare a finire, proprio in quel momento la famosa vendetta di Montezuma decise di colpire Mazzola. Sandrino attirò l’attenzione dell’arbitro, chiese di poter rientrare negli spogliatoi e si diresse di corsa dietro la porta della prima toilette sul suo cammino. L’attacco intestinale fu così diffuso in squadra che dopo 6 minuti Mazzola dovette uscire dal bagno e far entrare Rivera

 

Al centro del campo, in attesa di riprendere, gli altri raggiunsero un’intimità tale da iniziare a confessarsi a vicenda ricordi familiari di guerra.
La famiglia Burgnich si riparava nelle trincee del conflitto del 15-18. Il bimbo Albertosi vedeva dalla finestra di casa gli aerei bombardare il ponte della ferrovia. Nell’osteria di casa Domenghini si commentava il raid su Dalmine. Pierluigi Cera, sfollato nella Bassa Veronese, in una villa di campagna sentiva il rombo lontano dei bimotori alleati, mentre più o meno nello stesso momento gli Schnellinger erano stati evacuati da Düren, al confine con l’Olanda e il Lussemburgo, ed erano stati alloggiati in una caserma a Berlino. Il piccolo Karl-Heinz dormiva in un letto a castello e un bimbo, forse per il freddo, forse per la paura – raccontò a Boninsegna – “fece la pipì che piovve sul letto e su di me” (*)
Schnellinger ragionò sul fatto che loro – i tedeschi – erano stati nemici di guerra per 19 mesi. Francesi, inglesi e poi americani per 3 anni e 3 mesi. Eppure le famiglie italiane non avevano dubbi su chi considerare più ostile, su cosa considerare più traumatico. Boninsegna disse: “Nulla unisce più che essere stati infelici assieme”. Così, quando la partita si chiuse 2-2, gli italiani proposero alla FIFA di far giocare la finale alla Germania e i tedeschi spinsero perché fosse l’Italia a essere qualificata. Formarono una selezione mista Italia/Germania e con quella sfidarono il Brasile. 

 

(* Dei ricordi di guerra dei calciatori in campo ha scritto Gino Cervi ieri su Foglio Sportivo)

 

| Sul 3-2 Gerd Müller non segna al 110’
Mancavano dieci minuti alla fine e l’Italia era in vantaggio per 3-2 dopo il formidabile gol di Gigi Riva. Gerd Müller notò che Albertosi e Rivera si dicevano qualcosa, peraltro con toni concitati. Müller non conosceva l’italiano, ma conosceva gli sguardi che hanno i calciatori quando discutono tra loro. Albertosi voleva un difensore sul palo, ma non c’era abbastanza tempo per provvedere prima che il gioco fosse ripreso. Müller decise allora che avrebbe colpito proprio là, dove stava improvvido Rivera, ma Rivera chissà come riuscì a mettere il piede sulla traiettoria e rinviò lontano, stavolta spazzò proprio, con decisione, come un Niccolai, un Rosato. Si tolse di dosso con una giocata sola il soprannome di abatino e divenne così tripallico, prendendosi gli elogi di Gianni Brera sul Giorno l’indomani. 

 

Dieci minuti ancora e fu tutto finito. L’Italia andava in finale battendo per 3-2 la Germania. Un’agenzia di viaggi romana aveva messo in palio un pacchetto vacanza per chi avesse indovinato il risultato della partita. Così al fischio finale, vedendo in casa i parenti festeggiare, un bimbo di tre anni intuì la vittoria dei suoi al concorso viaggi e abbracciò il cuginetto più grande esclamando: «Andiamo a Berlino, Beppe, andiamo a Berlino». Beppe lo fissò e chiese se si trattava di Berlino Ovest o di Berlino Est. 

 

| Sul 3-3 Rivera non segna al 111’
Il protagonista che nessuno vide mai, stava seduto in una cabina radio. Si chiamava Enrico Ameri, e come ha scritto Riccardo Cucchi in La partita del secolo (Piemme) “era esausto durante i supplementari. Se ne accorse Ezio Luzzi, altra mitica voce di Tutto il calcio. Era con lui in cabina e a un certo punto cominciò a massaggiare le spalle del collega nel tentativo di alleviare la fatica e le conseguenze di una postura obbligata per ore, con il microfono tra le mani e gli occhi attenti a ogni dettaglio che il campo rivelasse e che fosse utile raccontare”.
Dopo il gol del 3-3 subito dall’Italia, Ameri si accorse che Rivera tornava a centrocampo con un piglio nuovo e che – battuta la palla al centro – aveva solo la porta di Maier nei suoi occhi. La palla passò svogliata da Facchetti a Boninsegna, che diede un’accelerata, se ne andò sulla fascia e la mise bassa verso il centro dell’area. Rivera carico di foga andò per aprire il piatto e spiazzare Maier, ma Maier era come informato, si gettò stavolta dal lato giusto e deviò il pallone in calcio d’angolo. 
Nando Dalla Chiesa in La partita del secolo (Solferino) ha scritto Nando Dalla Chiesa ha scritto che oggi va ringraziato Schnellinger “perché senza di lui non ci sarebbe state tutta quella bellezza, tutta quella emozione”.

 

Un’emozione infinita perché una volta chiusa sul 3-3 la partita senza il settimo gol di Rivera, al CT Ferruccio Valcareggi venne un’idea. Perché non ci giochiamo tutto con cinque rigori a testa? Chi ne segna di più va in finale. I tedeschi fiutarono una trappola. Si fecero mettere per iscritto bene ogni regola, prima di accettare. Ai Mondiali non c’era ancora stata una partita risolta a quel modo. La Germania scelse di alternare cinque tiratori diversi, l’Italia optò per affidare a Rivera tutti e cinque i tiri. Si può fare, chiese Beckenbauer? Con tutto quello che abbiamo fatto finora, gli rispose Zoff dalla panchina, mi pare il minore dei problemi. 
Per i tedeschi segnarono Grabowski, Overath, Müller, Beckenbauer e Vogts. L’Italia rispose con Rivera nell’angolo alto a destra, Rivera nell’angolo basso a sinistra, Rivera a mezz’altezza, Rivera sotto l’incrocio dei pali, Rivera al centro della porta. Maier non sapeva più dove buttarsi. 
Con il risultato ancora in parità sull’8-8 bisognava prendere una decisione.
Non esisteva un protocollo su come andare avanti.
Le squadre si fermarono un paio d’ore e la FIFA tenne un congresso improvvisato per stabilire cosa fare. Il delegato egiziano Hurban El Khair era per fermare tutto e ricominciare un nuovo Mondiale fra quattro anni, o forse otto. L’argentino Gabriel Gravín propose invece di tornare in campo al più presto e di festeggiare la ripresa ballando al suono di una fisarmonica, tutti insieme, all’algoritmo di un tango. 
«Che meravigliosa partita, ascoltatori italiani» disse alla televisione italiana Nando Martellini. 
Vero.
Meravigliosa. 
Ma precisamente: quale delle tante?

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.